Welfare & Lavoro

Le risorse (umane) della celluloide

"Il capo perfetto", nuovo film con Javier Bardem, per la regia di Fernando León de Aranoa, piace e fa discutere. Col critico Andrea Cimento alla (ri)scoperta delle pellicole che hanno raccontato l'homo faber e l'animal laborans

di Redazione

Il mondo del lavoro cambia e sui mutamenti del lavoro è possibile sviluppare un’analisi economica, sociale e sociologica.

Ma c’è anche un’analisi culturale che il cinema si trova sempre a fare. E differisce dall’approccio di qualsiasi altra analisi. A fine dicembre 2021, a quasi vent’anni da I lunedì al sole, il noto attore di Hollywood Javier Bardem e il regista Fernando León de Aranoa sono tornati a parlare del mondo del lavoro attraverso il film Il capo perfetto: questa volta, però, lo osservano non più dal punto di vista dei lavoratori, ma dall’altra parte della barricata, dalla parte del “padrone”.

Un film “perfetto” sui rapporti umani nel mondo del lavoro

«Nulla nel film sfugge al controllo di una sceneggiatura senza sbavature, e pensata a capitoli. Dal un lunedì al lunedì successivo, la settimana lavorativa mette ciascun personaggio di fronte alla propria crisi e ai propri obblighi, doveri, impegni lavorativi, e morali – spiega Andrea Chimento, critico cinematografico, docente di cinema e Fondatore di Longtake -. Interpretato da un Bardem che non viene mai lasciato dalla macchina da presa, ogni personaggio ha il proprio ruolo in un mosaico in cui chi ricatta è ricattato, chi tradisce viene tradito e i vincitori, sul piano lavorativo e umano, sono in realtà dei vinti che hanno camuffato la loro sconfitta».

Un lavoro da film

L’ora e quindici minuti del film El buen patrón (Il capo perfetto) anche se vengono definiti solo “commedia”, «sono da vera e propria commedia nera che ci obbliga a guardare al mondo del lavoro, anche il nostro, quello di tutti i giorni. Dove non ci sono caricature – tipiche della commedia -, ma personaggi da dramma reale che che obbligano a guardare attraverso la lente della cinepresa e di “un” contesto particolare, il mondo del lavoro nella sua interezza. La scena finale disarma lo spettatole e lo obbliga a riflettere», aggiunge Andrea Chimento. Ne Il capo perfetto emerge la dis-umanità che attraversa le dinamiche lavorative. Con gli strumenti della denuncia e dell’inchiesta sociale che caratterizza, fortemente, tutta la filmografia del britannico Ken Loach, fino a quello più dissacrante e grottesco di pellicole come Full Monty o la trilogia italiana di Smetto quando voglio, l’epopea “picaresca” di un gruppo romano ricercatori universitari che si trasformano in produttori e spacciatori di droga per uscire dall’indigenza. D’altronde, il tema del lavoro, o del non lavoro, o ancora del lavoro precario, è appeso alle logiche con cui lo stesso Fernando León de Aranoa racconta lo stage, riguarda tutti. E il cinema ha abbondantemente il pregio di mettere centinaia di migliaia, milioni di persone di fronte ad un film e uscendo dalla sala – o abbassando il pc in famiglia – ad interrogarsi.

Il cinema ci fa ridere delle nostre storture reali. E fa riflettere

«Se tematiche attinenti il mondo del lavoro sono spesso al centro del dibattito cinematografico, differisce l’approccio, ma l’archetipo è Tempi Moderni (1936) di Charlie Chaplin – analizza Chimento, in “versione” docente di storia del cinema -. Il film narra le vicende dell’operaio Charlot, la cui mansione è quella di stringere i bulloni nella catena di montaggio, con gesti ripetitivi, i ritmi disumani e alienanti che generano nel protagonista ossessioni e allucinazioni, che raggiungono il culmine quando il malcapitato viene addirittura privato della pausa pranzo e utilizzato come cavia per sperimentare la macchina automatica da alimentazione, che dovrebbe consentirgli di mangiare evitando interruzioni». Chaplin, con soluzioni che strappano anche più di una risata in quel bianco-nero tragicomico, tratta il rapporto affascinante e controverso fra uomo e progresso, raccontando il lato oscuro del capitalismo, la povertà, lo sfruttamento e la disoccupazione.
Si ride – ma sempre con l’amaro in bocca – anche guardando Il Grande Capo (2007) di Lars von Trier. Si ride, ma con il ghigno sadico del proprietario di un’azienda di informatica che ha deciso di vendere, ma lui ha inventato un finto capo, dietro il quale nascondersi in caso di decisioni impopolari. Come quella di chiudere.

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