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Decreto Semplificazioni: c’è poco da essere soddisfatti

Il parere del commercialista, consulente ed esperto di non profit: "Il tema sul quale si era concentrato il dibattito in questi anni era il superamento del concetto di commercialità o quanto meno un significativo intervento di semplificazione in grado di rendere la vita delle organizzazioni non profit meno onerosa e meno esposta a criteri interpretativi complessi ai quali oggi è invece ancorata. Il legislatore, invece, si è limitato invece a poche e non sostanziali modifiche".

di Marco D'Isanto

Le modifiche introdotte nell’iter di conversione in legge del Decreto Semplificazione (Legge del D.L. 73/2022) sulla parte fiscale della Riforma del Terzo Settore sono molto deludenti. La metafora che meglio descrive questa delusione è di quelle molto in uso nel linguaggio corrente e cioè che la montagna ha prodotto un topolino. Il tema sul quale si era concentrato il dibattito in questi anni era il superamento del concetto di commercialità o quanto meno un significativo intervento di semplificazione in grado di rendere la vita delle organizzazioni non profit meno onerosa e meno esposta a criteri interpretativi complessi ai quali oggi è invece ancorata. Il legislatore si è limitato invece a poche e non sostanziali modifiche.

  • E’ stato previsto l’innalzamento dal 5 al 6% della soglia oltre la quale l’eventuale avanzo prodotto nella realizzazione delle attività di interesse generale rende quei proventi attratti alla sfera commerciale.
  • E’ stata inoltre chiarita la definizione dei costi effettivi ma ulteriore confusione è stata generata relativamente al trattamento fiscale dei contributi pubblici.
  • Non è stato infatti risolto il problema, ripetutamente segnalato, delle disposizioni contraddittorie relative al trattamento fiscale dei contributi pubblici. Da una parte infatti vengono esplicitamente richiamati tra i proventi che devono concorrere al test di commercialità (c. 2 dell’art. 79) dall’altra sembra che venga prevista una presunzione assoluta di non commercialità ai fini della verifica della qualificazione fiscale dell’ente (5bis dell’art.79). A questo proposito è stato aggiunto nel comma 4 che non concorrono, in ogni caso, alla formazione del reddito degli enti del terzo settore di natura non commerciale ai sensi del comma 5, i contributi e gli apporti erogati da parte delle amministrazioni pubbliche delle attività di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo, e cioè quelle condotte con modalità non commerciali. A parere di chi scrive questa aggiunta ha lo scopo di specificare che i contributi pubblici che invece concorrono allo svolgimento di attività di interesse generale condotte con modalità commerciali sarebbero imponibili.
  • Viene mantenuta, a regime, la previsione che il mutamento della qualifica fiscale opera a partire dall’anno nel quale si verifica. E’ prevista una deroga solo per i primi due anni di applicazione della nuova disciplina. Una rigidità inspiegabile che serve solo a rendere molto difficile la vita degli enti di terzo settore.
  • L’architettura secondo la quale gli enti possono qualificarsi come “non commerciali” solo nella misura in cui sono in grado di attrarre entrate di natura non corrispettiva, e dunque non derivanti dall’esercizio di una attività economica, in forma prevalente rispetto all’esercizio di attività commerciali remunerate dal mercato, è stata conservata integralmente.
  • Sono state ignorate, almeno per ora, le osservazioni di chi nel corso di questi anni ha suggerito di equiparare il trattamento fiscale riservato alle imprese sociali anche agli altri enti di terzo settore con la previsione della totale detassazione degli eventuali avanzi di gestione prodotti nello svolgimento delle attività di interesse generale.

Si è pertanto insistito sul concetto che una attività nella misura in cui sia in grado di generare entrate superiori ai costi debba essere considerata commerciale e quindi tassata in forme ordinarie, seppure svolta in condizioni di non lucratività e nell’ambito di settori di grande rilevanza sociale e pertanto generatrice di una precisa utilità pubblica.

Dal punto di vista fiscale si è quindi negato quel concetto di sussidarietà che pure ha ispirato parte del codice del terzo Settore. Un concetto che ha condotto il legislatore a considerare le attività svolte in regime di co-progettazione estranee alle procedure per l’affidamento degli appalti previste dal codice dei contratti pubblici.

Sin dalla legge delega infatti si è voluto favorire il riconoscimento delle attività delle organizzazioni non profit come pilastro fondamentale per la costruzione di un sistema di welfare moderno in grado di recepire il contributo offerto dalle organizzazioni di terzo settore alla coesione sociale.

Nella riforma le finalità di interesse generale sono affidate all’azione degli enti del terzo settore e si riconosce ad essi una tutela giuridica a prescindere dalle strutture giuridiche utilizzate per perseguire quelle finalità.

In questa prospettiva la Corte costituzionale ha sancito che si è identificato così un ambito di organizzazione delle «libertà sociali» (sentenze n. 185 del 2018 e n. 300 del 2003) non riconducibile né allo Stato, né al mercato, ma a quelle «forme di solidarietà» che, in quanto espressive di una relazione di reciprocità, devono essere ricomprese «tra i valori fondanti dell'ordinamento giuridico, riconosciuti, insieme ai diritti inviolabili dell'uomo, come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente».

Prospettiva questa ignorata dal legislatore fiscale che insistentemente non ha voluto riconoscere agli enti di terzo settore quel trattamento fiscale agevolato in grado di dare effettivo riconoscimento all’azione sussidiaria da essi svolta.

*Dottore commercialista, esperto di non profit, imprese ed istituzioni culturali


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