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Cooperazione & Relazioni internazionali

Caporalato, storie di sfruttamento e resistenza delle donne tunisine

Caporalato, sfruttamento, lavoro in nero, salari sotto il minimo sindacale, orari estenuanti, rischi per la salute, moleste e violenze sessuali. Questo il quadro che emerge dalla ricerca condotta da COSPE in 5 regioni della Tunisia con il progetto Faire. I risultati sono stati presentati oggi a Bologna durante "Terra di Tutti Film Festival", la rassegna di cinema sociale, incontri ed eventi promossa dall'associazione di cooperazione internazionale insieme all'Ong WeWorld

di Redazione

Nella Tunisia rurale odierna esiste e resiste una forma molto forte di caporalato di cui le prime vittime sono le donne. Il sistematico sfruttamento per il lavoro dei campi avviene principalmente attraverso l'impiego di intermediari che si prendono una percentuale sui trasporti e sui salari, a questo si aggiungono orari di lavoro inaccettabili e paghe da schiavismo mantenuti con intimidazioni, minacce e violenze. Il terreno fertile per questo tipo di fenomeno è l'arretratezza economica e culturale di alcune zone depresse del Paese. COSPE, grazie al progetto Faire, ha condotto una ricerca-azione che attraverso un campione di 100 donne di 5 regioni, raccoglie la complessità e le varie dimensioni di questo fenomeno, difficile da sradicare.

Nel panel bolognese che si è tenuto questa mattina durante "Terra di Tutti Film Festival", la rassegna di cinema sociale, incontri ed eventi promossa dall'associazione di cooperazione internazionale insieme all'Ong WeWorld hanno parlato del fenomeno e dei dati emersi dalal ricerca, Amina Ben Fadhl – COSPE, Jean René Bilongo – Osservatorio Placido Rizzotto, Sabina Breveglieri – Nexus CGIL, Marco Omizzolo – sociologo, moderati da Leonardo Di Filippi – LEFT Rivista.

La ricerca in particolare ha indagato la complessità delle dimensioni del lavoro, che per le donne significa anche includere il lavoro domestico, oltre che il lavoro nei campi e nella raccolta di vongole, nella regione costiera di Sfax. Sono 91 le donne intervistate, la maggior parte delle quali tra i 31 e i 50 anni con un alto tasso di non istruzione (53%). Tra le lavoratrici intervistate ben il 55% dichiara di aver accesso al lavoro attraverso un intermediario, uomo, che quindi ne controlla l’accesso e pone queste lavoratrici sotto il suo controllo. Il ruolo degli intermediari, o caporali che dir si voglia, cambia a seconda delle regioni e soprattutto a seconda della tipologia di coltivazione. In alcuni casi l’intermediario gestisce l’accesso al lavoro (trasporti o contatti) in altre la vendita (e decide il prezzo).

Delle 72 lavoratrici agricole del campione, 69 hanno riferito di aver lavorato illegalmente senza alcun diritto riconosciuto; solo tre lavoratrici della regione di Sidi Bouzid hanno dichiarato che l'agricoltore con cui lavoravano aveva dato loro un contratto regolare. Inoltre l’utilizzo generalizzato di pesticidi espone le lavoratrici a problemi di salute, dato che non sono forniti neppure strumenti di protezione adeguati. I dati della ricerca, in relazione alle lavoratrici in agricoltura, sono molto chiari: solo il 7,69% ci dice che le misure di igiene e protezione sono fornite dal datore di lavoro.

Il 71% delle donne intervistate ha inoltre dichiarato di aver avuto incidenti o mentre andava al lavoro o sul posto di lavoro. La carenza di misure di protezione è tale che non esistano neppure kit di primo soccorso e quindi in caso di incidente le donne vengono inviate al più vicino centro sanitario di base o continuano a lavorare fino al loro ritorno a casa.

«Dalla nostra indagine», dicono da Cospe, «che seppur limitata è significativa per il contesto tunisino, il 49% delle lavoratrici guadagna meno del salario minimo e il restante 51% che guadagna di più lo fa occasionalmente. Quasi la metà infatti lavora su base stagionale e non per scelta ma per carenza di lavoro nella restante parte dell’anno o perché, come nel caso della pesca, ci sono periodi di riposo biologico quando la pesca è vietata per preservare le risorse marine»

Gli orari e i giorni lavorati sono particolarmente pesanti: più del 50% delle donne ha dichiarato di lavorare 6 giorni a settimana, mentre il 27,54% lavora 7 giorni alla settimana, senza riposo, e il 17,39% di loro lavora meno di 6 giorni a settimana. La media giornaliera di ore lavorate arriva a 9 ore e 30 minuti se si calcola anche il tempo dovuto agli spostamenti, altro nodo critico e cruciale per descrivere la situazione di sfruttamento.Il 66% di queste donne sono trasportate da un intermediario. Incidenti stradali, molestie rendono insicuri tutti i mezzi di trasporto per le lavoratrici.

L’insicurezza si trasforma talvolta in violenza verbale e fisica di cui dichiarano di essere state vittime per il 60% del campione intervistato. Lo spazio in cui le donne riferiscono di soffrire di più la violenza sono i luoghi di lavoro, che rappresentano la percentuale più alta, quasi il 32%, ma a volte i numeri parlano più forte che le parole. La violenza infatti sembra essere perpetuata ovunque, dalla casa, ai trasporti, al lavoro tanto che il 21% delle donne dichiara di aver subito violenza in più di un luogo.

Le donne che lavorano nella pesca e nell’agricoltura in Tunisia son pagate dal 30 al 40% in meno rispetto agli uomini e rispetto al salario minimo agricolo garantito per la legge», ha spiegato Amina BenFAdhl, responsabile del progetto per COSPE. «Per poter lavorare, si affidano a degli intermediari, che prendono una percentuale sul loro guadagno. Si crea così un caporalato, non solo sulla rete dei trasporti, ma anche su altri fronti, e spesso si tratta di vicini o famigliari. Sono donne che vivono in località isolate, lontane dal centro della città, e non hanno accesso ai servizi dello Stato: ciò le rende più fragili. Inoltre si tratta di un lavoro stagionale, in nero. Devono fronteggiare molti ostacoli, lavorativi, sociale ed economici, ma sono donne nonostante tutto forti, che resistono e che cercano non solo di lottare per garantire ai figli un futuro migliore, ma anche di creare sinergie e reti per riprendersi i propri diritti. Il progetto le sostiene in questa sfida, e cerca di rispondere alle difficoltà accentuatesi con la pandemia degli ultimi due anni. Il progetto cerca così di creare canali di vendita alternativi: dalla vendita a km zero, al marketing on line. La strada è ancora lunga per i diritti delle donne agricoltrici – conclude Amina BenFadhl- ma dei piccoli semi di consapevolezza sono stati piantati e qualcosa si sta muovendo».


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