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Cooperazione & Relazioni internazionali

La guerra si può delegare, la pacificazione no

Il rapporto intimo attuale della maggior parte di noi - al di qua del confine - con la guerra non è il rapporto con la realtà della guerra ma con un’idea della guerra. Io abito comodamente sotto un cielo di stelle e non di missili. E io mi posso permettere il lusso ed il tempo di discutere e non rischiare nulla. Obiezione di coscienza e nonviolenza non si mettono in pratica “con la vita degli altri” ma “con la propria”. Per questo ho scelto il Mean, per continuare a debellare l’idea che alla guerra si possa rispondere solo con la guerra

di Paolo Della Rocca

Immaginate di essere in un’aula di studenti (o di adulti… uguale) per parlare della guerra; immaginate di chiedere prima di tutto due cose: “secondo voi entro 100 anni riusciremo ad andare su Marte?” E poi “sempre entro 100 anni riusciremo a fare a meno della guerra?”. Raccogliete le risposte in forma anonima, che libera da imbarazzi di reputazione e anche da ruoli sociali precostituiti, che risposte vi immaginate? Do un piccolo aiutino… : affermative per la maggior parte della prima, alla seconda il “si” praticamente inesistente. Immaginate di condividere in diretta i risultati. Ecco che deflagra (è proprio il caso di dirlo) la contraddizione tra “conquiste tecnologiche” e “conquiste di civiltà”. Silenzio…

Però almeno una cosa le due risposte l’hanno in comune: sono date entrambe da una posizione di chi è spettatore, coinvolto magari emotivamente ma non concretamente.

In realtà c’è almeno un’altra cosa in comune alle persone che rispondono ad entrambe le domande: nessuno ha esperienza diretta di ciò che gli è stato chiesto. Però ha risposto lo stesso. Com’è possibile? Che tipo di rapporto hanno con questi temi? Un rapporto mediato. Così come la maggior parte della conoscenza sul mondo è mediata. A tutti noi, ad esempio, la storia è stata spiegata procedendo secondo due criteri prevalenti: le conquiste belliche (invasioni, progetti di espansione, etc…) e le “conquiste” tecnologiche (il bronzo, il ferro, la polvere da sparo, la rivoluzione industriale, etc…). Non sono sicuramente gli unici criteri, possiamo aggiungervi almeno altri due come gli accordi politici o gli eventi naturali/climatici ma nei libri di storia i primi due sono senz’altro prevalenti.

Mi si perdonerà questa digressione ma serve per focalizzare un aspetto importante: nel caso di Marte la conoscenza mediata suggerisce che ci vuole un percorso di super-specializzazione, che ci vogliono studi e che magari i primi che metteranno piede su quel pianeta saranno super esperti nonché fisicamente preparati; ma anche nel caso della guerra la conoscenza mediata (e generalista) non offre altro che l’idea che oltre un certo limite – nel momento in cui parlano le armi – non si può fare altro che rispondere con le armi senza gradualità o senza soluzione di continuità tra le armi e altre forme di reazione/resistenza. E anche in questo caso la gestione della faccenda è affidata ad una realtà di esperti (i militari).

Che sia guerra in Ucraina o Marte la posizione che occupiamo come “semplici cittadini” resta quella dello spettatore e la gestione nel concreto del problema riguarda altri; nel migliore dei casi siamo uno spettatore che fa suoi gli appelli per la pace (e siamo tantissimi), si mobilità in casa propria, manifesta, fa pressione sulle proprie istituzioni; nel peggiore dei casi siamo uno spettatore che assiste (e partecipa) seduto sul proprio divano alla narrazione del Pensiero Unico Bellicista (come lo definisce Nico Piro) mediata – anch’essa – dai talk show (non tutti), dal fenomeno della post verità, dall’ “espertismo”, dalle visioni politiche e ideologiche nei discorsi pubblici e privati.

Per quanto riguarda questa guerra vicina a noi la narrazione collettiva a cui partecipiamo da spettatori, offre analisi geopolitiche, economiche, tattico-strategiche a un livello che sembra sempre inafferrabile, ingovernabile, inarrivabile: ci si sente sempre piccoli e impotenti di fronte a fenomeni di massa e governati da pochi “decision maker” (legittimamente o meno è un altro discorso).

Cosa qualifica dunque il rapporto intimo attuale della maggior parte di noi – al di qua del confine – con la guerra? Non è il rapporto con la realtà della guerra ma con un’idea della guerra. Questa idea, semplice o articolata che sia, veicolata dalla narrazione collettiva, assegna già anche il ruolo alle persone comuni, i cosiddetti “civili”, ovvero ciascuno di noi, in modo ben definito: nella narrazione collettiva i civili sono solo vittime della guerra, al massimo soccorritori di altri civili. Soggetti altrettanto impotenti alle dinamiche geopolitiche, economiche, militari.

Da membro di questa collettività di civili spettatori, partecipando alle missioni realizzate a Kiev e a Leopoli con il progetto MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta), ho scoperto che i cittadini ucraini hanno percorso contemporaneamente due strade: la prima è quella del Memorandum di Budapest del 1994 con il quali rinunciano a tutto il loro arsenale nucleare, ma è anche quella della mobilitazione civica di Euromaidan nel 2014 e anche quella delle prime settimane di invasione quando scendevano per strada uomini, donne, anziani a tentare di fermare le colonne di camion e carri armati russi con il proprio corpo . Come ha ben fatto notare Marianella Sclavi, alla sua domanda “cosa avremmo potuto fare come europei per aiutarvi dopo l’invasione?” la risposta è stata “venire a sostenerci quando scendevamo in strada per fermare con i nostri corpi i carri armati” (qui). Gli stessi ucraini hanno però percorso anche una seconda strada, quella della difesa militare, aderendo alla convinzione – sempre a disposizione nella narrazione collettiva – che, ad un certo punto, è l’unica possibilità per difendersi.

Cosa abbiamo fatto come europei? I nostri governi – tralasciando in questa sede i distinguo tra loro – hanno deciso, per la prima volta nella storia dell’Unione Europea, di dare sostegno diretto alla difesa armata dell’esercito ucraino e all’economia dell’Ucraina. I nostri governi hanno anche attivato meccanismi di solidarietà (accoglienza di profughi in primis, fornitura di aiuti materiali) che ha coinvolto anche i cittadini, nel ruolo di soccorritori. Anche la società civile, tramite le realtà del terzo settore e degli enti locali, ha partecipato e partecipa con proprie iniziative di solidarietà.

A conti fatti, tralasciando qualsiasi giudizio morale ed etico, rimanendo su un piano puramente descrittivo e pragmatico, quale delle due strade percorse dagli ucraini abbiamo realmente sostenuto come europei? Solo la seconda, che potremmo definire del “sostegno a distanza”.

Come mai? Forse perché siamo pervasi dalla stessa narrazione collettiva… . Forse perché non ci è stato mai insegnato un modo diverso di gestire questo tipo di conflitti. Forse perché come cittadini abbiamo costruito socialmente e culturalmente (e alimentiamo costantemente) una “delega alla difesa armata” anche se in zone del mondo e tempi diversi non è sempre stato così .

Eppure la Protezione Civile (si badi bene… “civile”) dopo un allarme si precipita con le proprie colonne di uomini e attrezzature sul luogo dell’emergenza. Non manda con i camion le attrezzature dicendo ai malcapitati “fate voi”…. . Con la guerra accade invece così.

Cos'altro non è allora l'esercito se non l'organizzazione che assume su di sé una gigantesca, collettiva e (il più delle volte) implicita delega dei cittadini di uno Stato a occuparsi del conflitto con la violenza e con le armi "al posto loro”? E ciò vale anche indipendentemente dalle motivazioni e dalle idee dei singoli militari: possono agire da “invasati”, da “esecutori di ordini” riuscendo a disumanizzare il proprio fratello dall’altra parte della barricata riducendolo a obiettivo o “nemico”; possono anche agire da coscienziosi consapevoli di non aver, ad un certo punto, altra scelta che imbracciare un’arma e premere un grilletto. Non vorrei davvero essere al posto loro. In bilico tra il rischio di perdere la vita ed il rischio di tornare a casa devastati dalla cruda esperienza di aver tolto quella stessa vita ad un altro essere umano.

Io abito comodamente sotto un cielo di stelle e non di missili. E io mi posso permettere il lusso ed il tempo di discutere e non rischiare nulla. Obiezione di coscienza e nonviolenza non si mettono in pratica “con la vita degli altri” ma “con la propria”. La guerra, forse, si può delegare, la pacificazione no. Come faccio a proporre qualcosa a qualcuno senza ascoltare e capire cosa pensa? Come faccio a chiedere o supplicare di rinunciare alle armi – anche a chi lo fa solo perché non vede altro – sapendo che lo lascio in balia del prossimo missile? Come colmiamo dunque quel vertiginoso vuoto tra il gesto di rinuncia alle armi e l’esposizione al rischio di essere la prossima vittima? E glie lo lasciamo fare da soli? Ho constatato in prima persona che una proposta del genere suonerebbe quantomeno ipocrita se non condividiamo con loro lo stesso rischio, se non espongo il mio corpo esattamente come il loro. Anche da obiettore di coscienza e nonviolento non mi sento autorizzato né a giudicare e nemmeno a dispensare consigli o proposte dalla comodità del mio divano.

In Ucraina, ma anche in Russia, c’è chi ha scelto pubblicamente l’obiezione di coscienza e forme di resistenza nonviolenta; collaborano addirittura tra loro pur appartenendo a parti avverse e si espongono in prima persona rischiando critiche e ripercussioni anche dai propri connazionali; queste scelte vanno sostenute perché possono sviluppare “da dentro” sensibilità e proposte diverse.

Allo stesso tempo va profuso ogni sforzo per condividere con la maggioranza che non vede altra via che quella armata e ricercare, con il proprio personale coinvolgimento, soluzioni che magari ancora non esistono ma di cui tutti condividono il bisogno. I milioni di persone che abitano l’Ucraina e la Russia sono molti ma molti di più dei militari che combattono; com’è possibile che siamo ancora in uno scenario di guerra? Non sono ancora corpo collettivo consapevole della propria forza. La stessa giornalista russa Maria Ovsyannikova, nel video in cui spiegava il proprio gesto (ndr: il cartello contro la guerra durante un notiziario tv) esortava i propri concittadini dicendo “siamo milioni, non possono fermarci tutti!” alludendo alla sproporzione di forze tra chi in Russia esercita il controllo (militare e mediatico) e chi sottostà a tale controllo.

Qualunque soluzione ciascuno di noi intimamente sogni non può avverarsi senza il proprio personale coinvolgimento; senza passare dalla posizione dello spettatore a quella del protagonista. Così come, mutatis mutandis, abbiamo riflettuto a lungo nel MoVI rispetto al ruolo del volontariato che non può essere solo “soccorritore” di un sistema ma protagonista di sussidiarietà e promotore di soluzioni; così come la società civile non può muoversi solo a soccorso di altri civili, da spettatore irretito o annichilito dalla narrazione collettiva sulla guerra senza immaginarsi attore collettivo di cambiamento.

Cosa succederebbe se si avverasse l’auspicio di Angelo Moretti di considerare i 100.000 scesi in piazza il 5 novembre un sostanziale corpo civile di pace che si affianchi fisicamente e spiritualmente alle cittadine e ai cittadini ucraini dando un potente segnale della presenza dell’Europa dei popoli, non di quella dei governi (qui)?
Nella Sarajevo assediata, nel dicembre di 30 anni fa, entrammo solo in cinquecento ed abbiamo generato la prima tregua dall’inizio dell’assedio. Come disse don Tonino Bello allora “l’ONU dei popoli è entrata col buio su autobus civili mentre gli autoblindo della missione di pace ONU erano già al sicuro nelle caserme al calar del sole”.

Cosa succederebbe se andassimo anche solo in 10mila a Kiev? Cosa succederebbe se accanto al 2% del PIL per le spese militari ci fosse uno 0,2% per un corpo civile di pacificazione? L’Europa dei popoli è pronta ad andare su Marte?

Forse non debelleremmo la realtà della guerra ma potremmo riuscire a debellare l’idea che alla guerra si possa rispondere solo con la guerra.


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