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Cooperazione & Relazioni internazionali

Immigrati: “aiutarli a casa loro?”

di Giulio Albanese

Sono rientrato da un paio di giorni dal Kenya e chiedo venia per aver disertato lungamente questo blog. Debbo confessare che fa uno strano effetto seguire il Sinodo Africano da una città come Nairobi. Penso soprattutto a quell’ondata di interventi, discussioni e relazioniche hanno scandito i lavori sinodali. Un conto è leggere le testimonianze dei vescovi, un altro vedere con i propri occhi le nefandezze che accadono quotidianamente da quelle parti nelle baraccopoli della capitale keniana. Non mi stancherò mai di ripetere quello che ho già scritto altre vostre: l’Africa non mendica la beneficenza di noi ricchi Epuloni, piuttosto invoca giustizia. A questo proposito vorrei condividere con voi, cari lettori, alcune considerazioni che ho buttato giù sullo scottante tema delle migrazioni. Forse non tutti sanno che i più poveri non possono permettersi di viaggiare. È quanto si evince da un documento di analisi e proposta, diffuso recentemente da una nota Organizzazione non governativa. Secondo questo studio, meno del 2 per cento dei migranti arrivati in Italia provengono dai Paesi caratterizzati da condizioni di grave e diffusa povertà, vale a dire con un reddito annuo pro capite al di sotto di 1.500 dollari. A scriverlo è Intersos, una Ong italiana da anni in prima linea nelle cosiddette aree di crisi, che ha realizzato la ricerca con l’intento di verificare se sia possibile armonizzare le politiche d’immigrazione e di cooperazione allo sviluppo per contenere i flussi migratori. Il tema è di grande attualità se si considera che l’unico punto di congiunzione tra le varie componenti del nostro parlamento, con sfumature diverse, risiede nel riconoscimento dell’importanza della politica degli aiuti allo sviluppo che dovrebbe, in linea di principio, favorire una diminuzione dei flussi dai Paesi più bisognosi. Ma le cose stanno veramente cosi o non c’è il rischio di scadere nella demagogia quando diciamo “aiutiamoli direttamente a casa loro”? Esiste in effetti, stando a Intersos, una correlazione tra migrazioni e cooperazione, ma deve essere valutata con serietà e ponderatezza evitando di scadere nei soliti luoghi comuni. L’analisi evidenzia in particolare che la riduzione dei flussi verso il nostro Paese dipende, nel breve periodo, soltanto in misura estremamente limitata dall’incremento degli aiuti della cooperazione. Ecco che allora il tanto agognato fenomeno della decrescita migratoria sarà possibile soltanto quando “a casa loro” si sarà creato un livello di vita – economico, sociale e culturale – in grado di soddisfare adeguatamente i bisogni e le aspirazioni personali e familiari. “Pur con dovuti limiti imposti da ogni forma di semplificazione, il ragionamento è semplice – ha commentato Nino Sergi, direttore generale di Intersos – precisando che “solamente quando il lavoro sarà retribuito adeguatamente – almeno quanto l’immigrato potrebbe capitalizzare nel Paese di accoglienza – e quando potrà essere garantito un futuro decoroso ai figli, la spinta all’emigrazione si affievolirà e inizierà al contempo quella inversa, del ritorno in patria”. È necessario dunque che il livello medio di povertà scenda ulteriormente per non spingere la gente ad emigrare dai rispettivi paesi. E non basterà che il reddito pro capite medio cresca, secondo lo studio di Intersos, ma sarà necessario che tale aumento sia diffuso e generalizzato e non consenta il perdurare di significative sacche di miseria nel paese d’origine. È chiaro dunque che la rotta da seguire – l’unica vera ed efficace – è quella di consentire alla cooperazione allo sviluppo d’essere davvero al centro delle politiche internazionali e dei rapporti tra paesi ricchi e paesi poveri, dandole dignità con risorse e strutture operative adeguate, sostenendola con una volontà e una visione di grande respiro. Una vera e propria rivoluzione copernicana, difficile da realizzare nell’attuale congiuntura economico-finanziaria che sta attraversando l’Italia, ma necessaria. Una cosa è certa: gli aiuti destinati dal nostro paese alla cooperazione non sortiranno alcun effetto positivo se continueranno a rappresentare lo 0,09% del Pil (minimo storico in trent’anni di cooperazione) o se basati sulla pur valida attivazione della “detax”, ovvero la possibilità di destinare parte dell’Iva all’aiuto allo sviluppo. D’altronde, come indicato anche dai Grandi della Terra nel recente G8 de L’Aquila, occorre promuovere una visione politica e strategica lungimirante e di lunga durata, un coordinamento a livello europeo e internazionale, programmi di aiuto e coerenti politiche economiche e commerciali di sostegno per creare realmente crescita e sviluppo nelle aree più povere. Prima che sia troppo tardi.


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