Welfare & Lavoro

L’enigma della stabilità

di Flaviano Zandonai

In tempo di crisi c’è fame di dati: il fatto che siano rigorosi e oggettivi è naturalmente importante, ma (quasi) ancor di più conta il fatto che siano tempestivi, per cui spopolano indagini campionarie che propongono soprattutto dati di sentiment, cioè di percezione delle tendenze. Il caso del rapporto Censis sulla cooperazione è emblematico: per la quasi totalità è basato su una rilevazione a campione dove i dati strutturali e di performance sono pochissimi, mentre abbondano quelli di sentiment. Una scelta che, in questo caso è quasi obbligata visto che le informazioni statistiche anche solo sul numero di imprese cooperative in italia sono, a dir poco, frammentate. In questa fase è quindi più importante sapere da un imprenditore come pensa si chiuderà il bilancio 2012 della sua azienda (se ci riuscirà), piuttosto che proporre il valore della produzione, chessò al 2008 (un’era geologica fa, considerando quel che è successo nel frattempo). Certo, il rischio di affidarsi a indagini “cotte e mangiate” è di proporre a tendenze mediate da una pluralità di fattori e che quindi possono essere “ballerine”. Inoltre, si prestano a un consistente effetto intervistatore soprattutto se si tratta di rilevazioni periodiche. Basti pensare che qualche tempo fa il responsabile di un’agenzia di analisi dati mi raccontava che alcuni soggetti coinvolti in un loro panel attendessero con impazienza di essere richiamati, possibilmente dallo stesso intervistatore!

Oltre alle questioni metodologiche c’è poi un problema di lettura dei dati. La crisi infatti tende a spostare il focus dell’analisi sulle code di frequenza, sui comportamenti “estremi” assunti dalle organizzazioni e dalle persone intervistate. Quanti sono in crisi nera e quanti vanno benissimo. Chi fa più investimenti e chi non ne fa per nulla. Chi assume e chi licenzia, e così via. Il problema è che spesso i dati relativi a questi comportamenti non sono maggioritari, perché la gobba della curva di distribuzione – dunque dove si concentrano le tendenze più diffuse – è improntata alla stabilità. Nel caso dell’economia sociale ciò è particolarmente vero, basta guardare ai dati del già citato rapporto Censis sulle cooperative. O al bell’osservatorio Isnet sulla cooperazione sociale. La maggioranza di queste imprese tende a segnalare “tempo stabile” nel mare mosso della crisi: il fatturato rimarrà stabile, l’occupazione anche, così come gli investimenti, l’innovazione e così via.

Interpretare la stabilità e le sue ambivalenze non è facile. Da una parte si potrebbe chiamare in causa il modello di resilienza delle imprese sociali che non è elastico come quello delle aziende for profit. Queste ultime, infatti, usano il mercato del lavoro come un ammortizzatore (tutt’altro che sociale): licenziano per liberare risorse da investire su nuovi prodotti e mercati per poi magari riassumere (anche se difficilmente con i livelli precedenti). Le imprese sociali invece si impegnano in politiche di efficientamento allo scopo di mantenere almeno inalterati (stabili quindi) i loro parametri, quelli sociali soprattutto (come l’occupazione). D’altro canto si potrebbe interpretare questa stessa tendenza alla stabilità, soprattutto quella che emerge dai dati di sentiment, come un’attesa di eventi così epocali che non si riuscirà a governare e quindi si sarà costretti a seguire stando sulla coda del cambiamento. Una strategia attendista forse pericolosa, ma che è comprensibile pensando che in generale si tratta di imprese abituate a non fare il passo più lungo della gamba procedendo per innovazioni incrementali. Per allungare il passo occorre quindi cambiare scala, dando maggior dinamismo allo sviluppo grazie, ad esempio, a nuovi sistemi di rete. Non a caso chi fa rete rompe gli indugi e innova di più.


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