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Smart city da incubo e volontariato startupper

di Flaviano Zandonai

É Milano la smart city che fa paura. Almeno guardando il video di presentazione di Expo 2015. Una specie di catalogo di tecnologie ormai più mainstream che innovative: biglietti elettronici, auto elettriche, reti wifi, pensiline multi servizio, ecc. Un format che si può adattare, senza eccessivo sforzo, a qualsiasi contesto ed evento. Una rassegna di tecnologie (ICT soprattutto) che prescindono da bisogni e risorse. Nel video, ad esempio, non c’è alcun riferimento a una tecnologia progettata ad hoc per temi cosí sociali come quelli dell’Expo. Di piú: nessun segno di vita, se non, permettete la divagazione, la splendida pseudo visitatrice che si aggira per una smart city qualunque.

In un post di qualche giorno fa, Alberto Cottica battezzava smart cities “del primo tipo” quelle rappresentate nel video. Le città intelligenti progettate dai grandi big players delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, alle quali fanno da contraltare le smart cities “di secondo tipo”: quelle degli startupper e degli innovatori sociali. C’è da augurarsi, anzi c’è da lavorare per fare in modo che le due prospettive convergano. Un buone esempio a livello nazionale è il bando Miur dove le mega progettualità sul capitolo smart cities and communities (progetti da decine di milioni di euro) verranno “accoppiate” con proposte formulate da giovani innovatori sociali. La modalità di gestione è tutta accentrata in sede ministeriale, ma certamente è sorretta da una visione molto chiara che farà scuola per la gestione di altre, e ancor più consistenti, risorse economiche.

Il processo di convergenza è tutt’altro che facile da governare. Il confronto sembra impari anche perché non é infrequente che i big players operino in veste di finanziatori delle startup, segnandone, a volte in modo consistente, lo sviluppo. In questo senso assume un ruolo rilevante la governance di eventi e iniziative come Expo e il ruolo che avranno al suo interno i diversi agenti di innovazione, soprattutto quelli che l’innovazione la sanno contestualizzare rispetto ai bisogni. Bisogna però allargare le fila degli innovatori, guardando, ad esempio, al ruolo del volontariato. Si tratta infatti di un grande innovatore: negli ultimi tre decenni ha contribuito a costruire pezzi importanti del sistema di protezione sociale. E inoltre svolge un ruolo cruciale come fattore di coesione, anche in contesti metropolitani non semplici come quello milanese. E poi, non dimentichiamolo, il volontariato è anche uno startupper. Sono infatte parecchie migliaia le imprese sociali che hanno dei “trascorsi” come associazione o gruppo di volontariato. Un incubatore ante litteram che non si è limitato ad accelerare lo sviluppo, ma si è addirittura inventato un nuovo modello d’impresa. Il tutto senza task force e fondo dei fondi.

Se non mi bloccava una faringite avrei cercato di dire più o meno queste cose alla presentazione del rapporto sul volontariato milanese del Csv. Rapporto che, oltre ai soliti dati di quadro, è arricchito di schede illustrative su progettualità avviate da organizzazioni di volontariato catalogabili come “innovazione sociale”. Il passo ulteriore dovrebbe consistere, come ricordava Paolo Cottino uno dei relatori all’evento, in un approccio processuale all’innovazione dove si possano collocare singole idee e progetti. Un caro, vecchio quadro di senso, come si direbbe con un espressione temo demodé. Altrimenti il rischio è che le tecnologie vadano per conto proprio e fagocitino i beneficiari. Un esempio? Domani (anzi oggi vista l’ora) a Trento si terrà un interessante seminario sulle reti digitali nel welfare. Tutto molto bello, peccato che nel programma di non profit se ne veda proprio poco e quindi temo un welfare digitalizzato… da incubo.


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