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Sfogo di un appassionato deluso

di Roberto Brambilla

Sono un appassionato di ciclismo. Non di quelli che cambiano la propria vita per vedere Tour, Giro e Classiche del Nord, ma uno che spesso usa la bici per muoversi (non avendo la patente) e che se può non si perde le gare in televisione. Il mio amore per la bici è nato in famiglia. Sia mio nonno materno che mio padre sono stati dei ciclisti amatoriali (nessuna gara, ma tanti chilometri su e giù per Brianza) e da bambino le mie giornate di luglio erano scandite dai compiti e dalla tappa del Tour de France.

Mi sono innamorato di questo sport guardando Marco Pantani, Miguel Indurain, Jan Ullrich e Lance Armstrong. Sì, proprio lui. Mi era sembrato un mito, sia perchè americano in un sport poco a stelle e strisce e poi per quelle che sembravano grandi capacità atletiche e sportive. Un uomo che aveva sconfitto il cancro e che era ritornato più forte di prima. Apparentemente con la forza di volontà e con l’allenamento, secondo le carte dell’Agenzia statunitense Antidoping attraverso il “sistema di doping più sofisticato della storia”. Ma il crollo di un mito e le reazioni come quella di John Fahey, capo della Wada, l’agenzia antidoping mondiale che ha dichiarato “Nell’era Armstrong si dopavano tutti”, portano più alla riflessione che alla delusione.

Ma se il problema fosse proprio il ciclismo come è concepito ora? Se la questione fosse quella di rendere questo sport faticosissimo (tappe da 230 chilometri, calendario lungo e fitto) di nuovo a misura d’uomo? Le politiche e i controlli antidoping hanno fatto passi da gigante e stanno scoprendo tutti gli scheletri negli armadi degli ultimi vent’anni, ma forse la chiave non sta solo in laboratorio e in tribunale, ma nell’educazione di chi si affaccia per la prima volta al ciclismo. Fargli capire che vincere, soprattutto se fatto in maniera disonesta, non è un bene sarebbe già una piccola (grande) vittoria.


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