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Noi, schiavi della tecnologia delle immagini

di Riccardo Bonacina

Poco meno di un anno fa, il 12 settembre 2008, David Foster Wallace fu trovato morto, impiccato, dalla moglie nella sua abitazione di Claremont, in California. Aveva 46 anni. Il New York Times lo definì “la mente migliore della sua generazione”. Conquistato, qualche mese fa, dalla lettura della riedizione di La ragazza dai capelli strani (minimum fax, ottobre 2008) e, in particolare, dal racconto inedito “Brave persone”, quest’estate ho portato con me in vacanza Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più (minimun fax, 1999). Così come in La ragazza dai capelli strani Wallace proponeva delle short stories su Lyndon Johnson, Keith Jarrett, David Letterman, sino agli yuppies e ai punk rockers, descrivendo e commentando l’intera cultura pop americana (le nevrosi, le ossessioni, le passioni e il suo disagio emotivo) con una genialità, un virtuosismo e un vigore che restano ineguagliati. In Tennis, trigonometria, … il racconto di Wallace, nel restituirci le sue esperienze di campione giovanile di tennis o gli appunti presi come inviato di “rivista fighetta come Harper’s” alla Fiera Statale dell’Illinois, tra maiali da esposizione, giostre e dolciumi ci racconta dell’America, la sua anima più viscerale e repubblicana e quella più trandy, ipermoderna, dei registi Est coast dei registi e degli scrittori alla moda.  In “E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione”, un racconto-saggio, del 1990, raccolto nel libro, Wallace ci propone una tra le pagine più lucide, a me pare, sulla cultura dell’immagine che alimenta il nostro io desiderante e ne è causa di infelicità. Eccone un brano, tanto per affrontare con un minimo di coscienza una stagione tv che inizia con un raccapricciante reality, Celebrity Bisturi con Brigitte Nielsen.

È del tutto irrealistico pensare che l’allargamento della scelta basterà da solo a liberarci dalla nostra schiavitù televisiva. L’avvento della tv via cavo ha aumentato la scelta da 4 o 5 a 40 o più alternative simultanee, senza che, a quanto pare, la presa della televisione sui comportamenti della massa si sia minimamente allentata. Qualcuno considera l’imminente svolta degli anni ’90 come una promozione degli spettatori americani da fruitori passivi di surrogati di esperienze a manipolatori attivi di surrogati di esperienze.  Ovvero, la nuova tecnologia metterebbe certamente fine alla “passività della mera ricezione”. Ma sulla passività del Pubblico, sull’acquiescenza connaturata a un’intera cultura del guardare e sul guardare, i telecomputer sembrano non produrre nessun effetto.

Il fascino del guardare la televisione ha richiesto da sempre un senso di illusione. E la televisione di oggi è diventata estremamente più abile nel creare nello spettatore l’illusione che egli possa trascendere i limiti dell’esperienza umana individuale, che egli possa essere dentro lo schermo, sotto forma di immagine “chiunque, dovunque”. Poiché i limiti dell’essere un essere umano comportano certe restrizioni sul numero delle diverse esperienze che ci sono possibili in un dato periodo di tempo, si può dire che i più grandi “progressi” della tecnologia televisiva degli ultimi anni non abbiano fatto molto più che assecondare questa illusione di fuga dai limiti che definiscono l’essere umano.  La tv via cavo ha accresciuto le nostre possibilità di sceglierci la realtà serale preferita; i telecomandi ci permettono di saltare in un istante da una realtà a un’altra; i videoregistratori ci permettono di affidare le esperienze a una memoria eidetica che consente di sperimentarle nuovamente ogni volta che vogliamo, senza la minima perdita o alterazione. Questi progetti hanno venduto bene, e aumentato le dosi medie di esposizione allo schermo, ma di certo non hanno reso la cultura televisiva americana meno passiva o meno cinica.

Naturalmente, il lato negativo della grande illusione della tv è che è solo un’illusione. Come Sfizio, la mia fuga dai limiti di un’esperienza autentica ci sta tutta. Come dieta regolare, tuttavia, non può che rendere la mia esperienza personale meno attraente (perché in essa io non sono altro che un singolo David con tutti i miei limiti e le mie restrizioni), rendermi meno adatto a viverla al meglio (perché passo tutto il mio tempo a fingere di non farne parte) e rendermi sempre più dipendente da uno strumento che mi permette la fuga proprio da ciò che il mio desiderio di fuga rende così sgradevole.

È difficile, quindi, concordare sulla visione soteriologia di un maggior “controllo” sull’elaborazione di spezzoni di illusione di alta qualità potrà liberarci tanto dalla dipendenza che caratterizza in parte il nostro rapporto con la tv, quanto dall’impotente ironia che dobbiamo usare per fingere di non essere dipendenti. Che sia “passivo” o “attivo” come spettatore, io devo comunque cinicamente fingere, perché sono ancora dipendente, perché la mia vera dipendenza in questo caso non è dipendenza da un singolo programma o da qualche canale più di quanto quella di un tossico sia dipendenza dal coltivatore turco o  raffinatore marsigliese. Ciò da cui sono veramente dipendente sono le illusioni e le immagini che le rendono possibili, e quindi qualunque tecnologie che può mettermi a disposizione questo tipo di immagini illusorie. E state attenti: noi siamo dipendenti dalla tecnologia dell’immagine; e più è evoluta la tecnologia, più ne siamo schiavi.

di David Foster Wallace, da E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione (1990); in Tennis, tv, trogonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più (minimum fax, maggio 1997):  96-97


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