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Umberto Veronesi? Un uomo sfortunato

di Riccardo Bonacina

La religione impedisce di ragionare, è questa la verità espressa da Umberto Veronesi, nel corso di una recente intervista. «Scienza e fede non possono andare insieme – ha detto il famossisimo oncologo e scienziato imprenditore – perché la fede presuppone di credere ciecamente in qualcosa di rivelato nel passato, una specie di leggenda che ancora adesso persiste, senza criticarla, senza il diritto di mettere in dubbio i misteri e dogmi che vanno accettati o, meglio, subiti».

Una presa di posizione, quella Veronesi, così dogmatica, tranchant e poco scientifica, che verrebbe voglia (e così ho fatto sino da ora) di derubricarla mandandolo al diavolo. Invece, a due giorni dalla sua sparata, mi sono ritrovato a fare queste riflessioni.

Mi sono chiesto come mai un uomo di fama che ha attraversato medicina, politica, imprenditoria senza troppi scrupoli ma con indubbia generosità di impegno potesse ridursi periodicamente al schiocchezzaio di tali sparate e mi sono dato queste risposte. Veronesi, non solo ha avuto una cattiva educazione religiosa incapace di dare ragione di se stessa, ma anche, più in generale sembra, un’educazione incapace di sollecitare ragione e ragionamento. Lo confessa lui stesso nell’intervista: «ho recitato il rosario tutte le sere fino ai 14 anni (…), poi mi sono convinto che ogni religione esprime il bisogno di una determinata popolazione in quel momento storico».

Anch’io ho dovuto fare i conti con la tradizione dei miei padri, la stessa, altrettanto muta di ragioni e di attualità anche se meno rigida e bigotta, di quella di Veronesi, ma ho avuto l’immeritata fortuna di incontrare un sacerdote, don Luigi Giussani, che mi ha fatto capire come la fede sia un’esperienza umana, uno sguardo attuale sulla vita, un modo di fare le stesse cose di sempre ma con più sapore. Un sacerdote che non mi ha mai detto “credi a me“, ma sempre “Non ti chiedo di credere a quel che dico, ti chiedo di verificare nella tua libertà se quel che provo a dirti è vero oppure no, per te”.

Diceva don Giussani: “La fede compie, salva la ragione. La compie, perché la ragione aspira sempre a qualcosa che non riesce ad afferrare, a spiegarsi. (…) La ragione è quel livello della natura in cui la natura prende coscienza di sé; ma prende coscienza di sé secondo la totalità dei suoi fattori. Ora, fattore della realtà è anche quel «punto» che noi chiamiamo «di fuga», quel «punto di fuga», quel punto in cui la realtà diventa segno di altro e per cui la conoscenza di qualsiasi cosa segnala l’insopprimibile esigenza di qualcosa d’altro oltre i fattori razionalmente dimostrabili. La ragione, non decifra il Mistero, ma rivela il segno della Sua presenza in ogni esperienza umana. «Sotto l’azzurro fitto/ del cielo qualche uccello di mare se ne va;/ né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto:/ “più in là!”», diceva Montale in una poesia. Perciò la fede, asseverando la presenza di questo Mistero attivo tra gli elementi decifrabili dalla ragione, completa la razionalità dello sguardo”. Che respiro, questo sì capace di spingerti sempre, ogni girno, ogni istante, alla ricerca del senso delle cose, della verità delle cose.

Ecco, per sua sfortuna, probabilmente, Veronesi non ha incontrato nessuno che gli testimoniasse il riverbero per sé e per l’oggi di un’esperienza di fede che è sempre, quando autentica e personale, esperienza di conoscenza; perciò, non ha potuto che passare da una leggenda antica ad una leggenda moderna. Così, di dogma in dogma Veronesi si è fatto sacerdote di uno scientismo assai poco scientifico e ragionevole ed anche parecchio spregiudicato.

Solo qualche esempio dello scientismo irragionevole di Veronesi.

In “Scienza e futuro dell’uomo” (Passigli, 2005) Veronesi sostiene che l’uomo con Copernico sarebbe “tornato ad essere parte di un processo evolutivo che include animali, piante e tutti gli esseri viventi. L’uomo viene così ridimensionato e nasce da lì il pensiero scientifico”. Poi però quest’uomo, uguale a piante ed animali, diviene improvvisamente un essere capace di cose straordinarie, grazie alla potenza della tecnologia: “Basta intervenire sul Dna prima dell’impianto nell’utero, inserire o togliere un gene, e possiamo creare un bambino che vivrà centovent’anni. Questo potrebbe avvenire domani mattina, possiamo farlo” (p. 49). E proseguiva: “Pensi che, se volessimo, in un ovulo fecondato in vitro potremo inserire nel Dna il gene dell’ormone della crescita di un elefante e ottenere dei bambini alti quattro metri” (p. 50).

E in uno degli ultimi libri pubblicati, “Organismi geneticamente modificati” (Sperling&Kupfer, 2007), scritto insieme a Chiara Tonelli, inizia subito con un concetto che è caro al celebre oncologo: “La vita è infatti un insieme di reazioni chimiche”, e “per la natura l’essere umano potrebbe essere semplicemente uno dei tanti tasselli da sacrificare, se l’evoluzione lo imponesse”.

Nel suo “Il diritto di morire” (Mondadori, 2005), il suo dogmatismo cede ad afflati misticheggianti: “Il motore di questa rigenerazione è il Dna umano che, riproducendosi, in ciascun uomo, propaga incessantemente la vita… potremmo quasi dire che la trasmissione del nostro Dna alle generazioni successive potrebbe essere letta come la versione moderna dell’immortalità, in quanto il Dna è in effetti immortale. Inoltre, trasferendosi da un corpo all’altro, riassume anche il concetto antico di reincarnazione” (p. 12).

In “La libertà della vita” (Raffaello Cortina, 2007), completamente calato nella mistica scientista, Veronesi auspica un mondo in cui gli anziani, a cinquanta o sessant’anni spariscano “Dopo aver generato i doverosi figli e averli allevati, il suo compito è finito, occupa spazio destinato ad altri”, per cui bisognerebbe che le persone a cinquanta o sessant’anni sparissero” (p. 39), e in cui i giovani si riproducano per clonazione riproduttiva, senza bisogno di entrambi i genitori, come ai tempi dell’androginoermafrodita originario (pp. 85-100; è una scoperta scientifica di Veronesi, l’ermafrodita originario, o un ennesimo abbaglio filosofico-esoterico?). “Ha senso, e se sì dove è il senso, che per avere un figlio ci vogliano sempre comunque un maschio e una femmina?… Dopotutto non pochi esseri viventi primordiali si perpetuano per autofecondazione. Certo per le specie evolute la dualità maschio femmina è apparsa sempre inderogabile. Ma possiamo dirlo ancora, dal momento che siamo capaci di manipolare il Dna e di clonare? Perché tanta paura della clonazione se l’abbiamo davanti agli occhi ogni volta che assistiamo ad un parto gemellare? Come tu dicevi: perché mai dovremmo per principio vietare alle donne di donare se stesse?” (p. 91). Detto questo, Veronesi conclude addirittura dicendo che la clonazione è in realtà il metodo migliore di riproduzione della specie umana perché “il desiderio sessuale cesserebbe così di essere uno dei maggiori elementi di competizione” e nessuno “sarebbe più ossessionato dalla ricerca del partner”. Nascerebbe così una società “quasi felice”, in cui ognuno vivrebbe “quell’ansia di bisessualità che è profondamente radicata in noi”, e “avremmo davanti a noi il Paradiso terrestre”.

Di dogma in dogma (e, bisogna pur dirlo, di affare in affare, dalla multinazionale della cura del cancro Ieo alla multinazionale della ricerca biotecnologica Genextra), Veronesi arriva dunque al suo (e dello scientismo) Paradiso terrestre, con la splendida promessa da “scienziato” laico, che vuole per tutti figli in provetta, figli clonati, uomini ermafroditi, e una società senza l’amore e senza amplessi e orgasmi tra uomini e donne (e poi dicono che la chiesa è sessuofobica).

No, caro Veronesi, ai tuoi orrori preferisco la ragione, una ragione così impegnata da confrontarsi con il Mistero. Sempre don Giussani diceva: “L’alternativa ultima è quella tra un io capace di affermare l’Infinito e l’affermazione infinita del proprio io”.

Aveva ragione Albert Einstein quando diceva che “L’universo  non è i miei numeri: è pervaso tutto dal mistero. Chi non ha il senso del mistero è un uomo mezzo morto”. Ecco perché Veronesi, in fondo, è un uomo davvero sfortunato.


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