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Castellucci: il pretesto e il testo

di Riccardo Bonacina

Su Castellucci e il suo spettacolo “Sul concetto di volto nel Figlio di Dio”, in tanti mi chiedono, bene ora che l’hai visto che dici? Provo a restituirvi qualcosa in breve, com’è giusto e come ho promesso. Dico, innanzitutto che è incredibile quello che è successo prima e fuori del teatro. Un dibattito sul nulla, pre-testuoso, il cui ultimo segno erano i nullafacenti carabinieri, agenti Digos e camionette intorno al Franco Parenti. Perciò, ho voluto insistere, nel dibattito post spettacolo con le domanda nel merito a Castellucci sul suo spettacolo. Spettacolo, ecco, non è una vera e propria pièce teatrale, è qualcosa di più simile a una performance/installazione. Un piano sequenza in cui il tempo di chi guarda coincide con quello di chi agisce in scena, una scena in cui non c’è mai un dramma agito, una cornice di senso data da un testo, una parola poetica, ma una sequenza “banale” di un momento di disfacimento di un vecchio, e di un rapporto tra un figlio divenuto padre e un padre diventato figlio, il tutto in una cornice estetizzante (il bianco e il marrone della merda e dei liquami, il metallo e la luce riflessa della tv, il sonoro…). Niente dramma, piuttosto, qualche spunto di “clownerie” (parola usata da Castellucci stesso), e un fermo immagine che relaziona per qualche secondo (gli unici emozionanti secondi della prima parte) e in modo diretto il piano sequenza allo sfondo con il Salvator mundi di Antonello da Messina. Il figlio in ginocchio con le mani sulle spalle del vecchio affaticato davanti al Cristo. Ecco, è proprio lo sfondo ciò che prova a sfondare il piano sequenza e che in qualche modo  lo sostiene impedendogli di scadere nel ridicolo o, di contro, nel fastidioso. Un’immagine forte e bellissima che ci guarda, un volto di un’indicibile dolcezza che non smette di guardare lo spettatore che guarda. La performance/istallazione è divisa troppo seccamente in due parti, il piano sequenza e poi ciò che succede all’immagine di Antonello nella seconda parte, una in cui la merda in cui finisce l’azione interagisce finalmente e in modo diretto con l’indicibile dolcezza del volto di Cristo. È indubbiamente, questa, la parte emotivamente più forte, perché apre alla domanda vecchia di secoli e sulla scena attualizzata e portata a noi, che c’entra quel Padre che si è fatto Figlio in Cristo con la merda in cui pare finire tutta una vita? Quel Figlio che non ha disdegnato la carne e perciò anche la merda per salvare l’uomo è speranza vera? È o non è, un buon pastore? L’icona di sfondo si disfà in questa domanda. Non c’è bestemmia, non c’è neppure provocazione, e davvero non farei un processo alla purezza delle intenzioni. È tutto sin troppo chiaro, semplice. Ecco tutto, mi pare.

Un amico che mi ha scritto dopo il precedente post mi segnala, a proposito delle proteste per supposta blasfemia, un versetto della letterera ai Romani di San Paolo che ci avverte dicendo: : “Il nome di Dio è bestemmiato per causa vostra tra i pagani” (Rm2,24).


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