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Quei luoghi comuni sul welfare

di Giulio Sensi

In Italia esiste uno “spread” piuttosto pronunciato fra l’importanza dei temi legati al welfare, la loro effettiva comprensione e la consapevolezza che ne hanno i cittadini. I mezzi di informazione più seguiti -e in generale i programmi televisivi- sono complici della confusione che si è creata.

Soprattutto sul welfare sociale (non autosufficienze, famiglia e maternità, povertà etc.) c’è poca informazione e si alimentano luoghi comuni e false credenze che non aiutano i cittadini a comprendere quali sono le reali dimensioni dei problemi e quali strumenti hanno a loro disposizione per esigere i propri diritti o fare la propria parte e costruire una società più unita e coesa.

Alcuni di questi luoghi comuni incombono, come macigni, nel senso comune. Uno dei capitoli del libro “Tra il dire e il welfare” -fresco di stampa edito da Altreconomia-, che ho curato insieme a Francesca Paini, è dedicato proprio a sfatare questi luoghi comuni. Ne abbiamo selezionati dieci, tra i più noti e diffusi, fra i cittadini come fra gli addetti ai lavori. Alcuni vi faranno annuire con decisione, altri vi sembreranno deboli, altri ancora ne avrete sicuramente da segnalare. Cominciate a farlo commentando questo articolo!

Da che parte guardi il mondo tutto dipende” cantava Jarabe de Palo qualche anno fa. Cerchiamo di guardarlo dalla parte giusta, o almeno proviamoci. Come dimostrano attente e precise analisi di studiosi come Cristiano Gori o di associazioni come la Fish, ad osservare il sociale con profondità, si trovano delle sorprese.

Partiamo con il primo: “Il welfare sociale costa troppo”. Non ce lo possiamo più permettere. Prima di urlare “FALSO”, cerchiamo di capire se è vero. In Italia la spesa pubblica per l’assistenza nel campo delle non autosufficienze, della famiglia e maternità e della povertà è nettamente inferiore rispetto alla media europea e alle altre voci di spesa delle politiche di welfare. La somma delle principali voci di spesa pubblica nel settore del welfare ammontava nel 2008 al 26,5% del Prodotto interno lordo, oltre 400 miliardi di euro. La quota più alta la occupano quella pensionistica, 16,1%, superiore alla media europea del 38%, e quella sanitaria (7%, inferiore alla media europea del 10%), mentre le voci del cosiddetto welfare sociale hanno numeri molto più bassi. Per la non autosufficienza si spende in Italia l’1,6% del Pil: la media europea è superiore del 31%. Stesso discorso per la famiglia e la maternità dove in Europa si spende il 61% di più che in Italia e per la povertà dove la spesa è più alta del 75%. Queste tre voci in Italia occupano in totale circa il 3% del Pil e la parte del leone la fanno le prestazioni monetarie per l’invalidità civile. Pur tenendo a riferimento la specificità italiana, sarebbe quindi più corretto affermare che in Italia il welfare pubblico ha un costo leggermente superiore alla media europea (il 26,5% del Pil a fronte del 26%) dovuto alla consistenza delle spesa pensionistica -che comunque in Italia ha la specificità di essere tassata-, mentre sugli interventi sociali si investe molto meno e, come abbiamo visto nella prima parte di questo libro, gran parte della quota di investimento è rappresentata da prestazioni monetarie individuali piuttosto che da servizi agli utenti ed è gestita a livello nazionale più che territoriale.

Quindi prima di dire “Non ci sono più soldi per il sociale”, altro luogo comune, sarebbe meglio dire per quale tipo di sociale non si vogliono trovare più denari. Si stanno infatti tagliando risorse limitate rispetto al complessivo della spesa pubblica, colpendo solo un settore già sotto-finanziato e causando difficoltà crescenti agli enti locali e una progressiva riduzione di servizi sociali. A livello macro le risorse diminuiscono, ma c’è una volontà politica che decide dove dirottare i tagli.

Altro esercizio utile è capire “cosa è stato tagliato e cosa no”. Si sta continuando a spendere molto per gli ammortizzatori sociali, anche a causa del persistere della crisi, per le pensioni non sono stati ancora attuati interventi che avrebbero permesso di recuperare qualche miliardo di euro, agendo sui pensionati più ricchi. La spesa pensionistica è infatti inarrestabile: è cresciuta negli ultimi dieci anni del 37,4%, secondo l’ultimo rapporto dell’Inps, passando dai 133,1 miliardi del 2002 ai 182,9 del 2011, quasi 50 miliardi in più. Anche per la sanità, nonostante i clamori, non si sono fatti tagli significativi, anche se il decreto del Governo Monti, nella spending review approvata dal Parlamento nell’agosto 2012, ha previsto un taglio fino al 2014 di due miliardi di euro riguardante in primis la fornitura di beni e servizi. Nonostante tanta retorica sui “falsi invalidi”, nemmeno le prestazioni per l’invalidità civile sono state toccate da alcuna riforma, anzi ci sono più costi per i controlli e i ricorsi. Per arrivare ai tagli occorre guardare più in basso: la spesa sociale dei Comuni. Dell’intera spesa pubblica la vittima principale è il sociale in senso stretto che rappresenta esattamente lo 0,4% del Pil. Tagliarla non serve certo a risanare le finanze pubbliche e ridurre il debito.

Passiamo al quarto: “Non ci possiamo più permettere gli asili nido”. Se analizziamo la spesa del welfare sociale per tipologia di utenti a cui è destinata, troviamo alcune sorprese. Gli utenti più trascurati -in termini di dimensioni di investimento- sono i bambini piccoli: per i servizi alla prima infanzia, essenzialmente asili nido, si spende lo 0,09% del Pil (dati Istat relativi al 2009), mentre per quelli agli anziani la spesa ammontava nel 2010 allo 0,64% del Pil. Se si prendono a riferimento le previsioni demografiche fornite dall’Istat, si trova che nel 2013 si stima l’esistenza di 2 milioni 243 mila bambini fra 0 e 3 anni, quota che calerà progressivamente fino ad arrivare a poco più di 2 milioni nel 2030 per poi ridursi molto lentamente nei decenni successivi. Nel 2010 la spesa impegnata dai Comuni per gli asili nido, al netto delle quote pagate dalle famiglie -che ammontano in media al 18%-, è stata di circa 1,277 miliardi di euro. Secondo i dati dell’Istat, dal 2004 al 2010, la spesa corrente dei Comuni per gli asili nido è cresciuta del 44,3% (il 26,9% se calcolato a prezzi costanti). Nonostante il graduale aumento dell’offerta pubblica, la quota di domanda è ancora limitata rispetto al potenziale bacino di utenza: nell’anno scolastico 2010-2011 gli utenti sono stati l’11,8% di tutta la potenziale popolazione, pari a 201.630 bambini. La disparità territoriale è molto forte: si va da una media del 3,3% di domanda soddisfatta al Sud al 16,8 del Nord-Est. I servizi integrativi e innovativi per la prima infanzia -come i nidi famiglia supportati dai Comuni- stanno crescendo ma soddisfano ancora appena il 2,2% dei possibili utenti. In media in Italia la quota dei bambini fra 0 e 3 anni che si avvale del servizio pubblico è del 14% -ben al di sotto degli obiettivi stabiliti dalla Ue e dalla media degli altri Paesi- e solo il 55,2% dei Comuni offrono servizi per la prima infanzia. A fronte di un servizio ancora largamente insufficiente a coprire le necessità potenziali della popolazione di bambini fra gli 0 e i 3 anni, i tagli ai fondi del sociale per i Comuni vanno a colpire anche gli asili nido che costano appena lo 0,09% del Pil.

È credenza comune che “Le persone al Sud siano più assistite”. La spesa sociale in Italia vive un forte squilibrio territoriale che riflette un altrettanto grande squilibrio in termini di servizi pubblici. In Calabria la spesa media pro-capite in servizi sociali è pari a 25,5 euro euro, nel Molise a 35,9 euro, in Campania a 53,9, in Sicilia a 77 euro. Più si sale al Nord e maggiore è la spesa pro-capite: nella Provincia Autonoma di Trento si superano i 260 euro, in Piemonte i 148 euro, in Lombardia i 123. In valori assoluti la regione in cui si spende di più nel sociale è la Lombardia con più di 1,2 miliardi di euro, quella in cui si investe di meno è il Molise con 11,5 milioni di euro. Certo, al Nord è anche maggiore la quota pagata dagli utenti per compartecipare ai servizi sociali: dal 6,6% del Veneto al 12,8 della Lombardia, mentre al Sud le compartecipazioni dei cittadini oscillano fra il 2 e l’8% (nel Lazio siamo al 4%). Inoltre negli ultimi anni è aumentata la quota delle prestazioni monetarie per invalidità civile che si concentrano soprattutto nel Sud, laddove i servizi sociali sono meno sviluppati. La situazione è quindi più complessa di quello che comunemente si creda.

Il sesto luogo comune lo abbiamo chiamato “Le badanti ci salveranno”. Le collaboratrici domestiche in Italia sono, secondo i dati dell’Inps, più di un milione e mezzo e assistono in gran parte -per l’83%- gli anziani non autosufficienti. Come collaboratrici domestiche si intendono badanti, colf e baby sitter: solo a 700.000 di queste vengono pagati regolarmente i contributi, mentre secondo Acli-Colf, la sigla delle Acli dedicata alle collaboratrici familiari, sarebbero più di 900.000 quelle che hanno posizioni lavorative non regolarizzate. Secondo i dati del Censis, il 71% delle donne che svolgono il lavoro di badante sono straniere e in buona parte proveniente dall’Est Europa. Più della metà delle collaboratrici domestiche regolari ha dichiarato, nell’indagine condotta da Acli-Colf, irregolarità nel versamento dei contributi previdenziali. Lo stipendio medio è di 880 euro -circa 6 euro l’ora- ma la disparità di trattamento è molto forte. Per pagarle le famiglie attingono spesso all’indennità di accompagnamento riconosciuta agli anziani non autosufficienti che ammonta a circa 490 euro. Molto spesso questo contributo economico viene utilizzato per pagare “in nero” le collaboratrici domestiche, alimentando un circuito di economia sommersa. A volte le famiglie non sono in grado di regolarizzare le collaboratrici, soprattutto quando è richiesto un impegno full time. Una collaboratrice su tre abita nella casa in cui presta servizio, due su tre quando l’anziano vive da solo. La posizione delle collaboratrici familiari in Italia è quindi molto precaria a fronte di una necessità sempre maggiore della loro presenza visto l’aumento degli anziani e l’impossibilità delle famiglie di curarli.

Il settimo dice: “Gli immigrati sono (solo) un costo”. La popolazione immigrata in Italia è molto più giovane di quella autoctona. La sua consistenza numerica è cresciuta notevolmente negli ultimi anni ed oggi, secondo i dati dell’Istat, gli immigrati residenti sono il 7,5% della popolazione italiana, in numeri assoluti oltre 4,5 milioni. Il 79% di loro ha un età compresa fra i 15 e i 64 anni, il 14% sono bambini fra i 3 e i 14 anni, il 5% fra 0 e 3 anni e solo il 2% sono anziani fra i 65 e gli 84 anni. Si può senza dubbio affermare che il sistema pensionistico italiano ha un pilastro importante: i miliardi di euro di contributi che i lavoratori immigrati regolari versano e che sono arrivati a 7,5 nel 2010, secondo i dati del Dossier annuale Caritas/Migrantes. Se si opera un raffronto fra quanto “costano” e quanto “versano” gli immigrati in Italia, la bilancia è positiva: l’onere più alto è quello sanitario, costato allo Stato 3,1 miliardi di euro nel 2009, una cifra che rappresenta pur sempre il 2,8% della spesa totale del comparto. 3 miliardi di euro è la stima dei fondi che sono stati spesi per l’istruzione dei bambini immigrati e 500 milioni è l’investimento, sempre nel 2009, per i servizi sociali dei Comuni destinati alla popolazione di origine straniera. Trascurabile è la quota di spesa pensionistica a favore degli immigrati. Il Dossier Caritas/Migrantes stima un saldo positivo di 1,5 miliardi di euro.

L’ottavo è forse il più noto nel mondo del terzo settore. Lo abbiamo chiamato “Questo è il paese dei falsi invalidi”. A giudicare dai mezzi di informazione, l’Italia è il Paese dei falsi invalidi, dei milioni di truffatori che si intascano le pensioni senza averne il diritto. Dal cieco che guida, all’infermo che si muove agilmente fra le vie cittadine. Gli abusi, spesso permessi da funzionari conniventi, esistono, ma l’enfasi che si mette sul problema di gran lunga più grande del problema stesso e i numeri lo dimostrano. Non c’è bisogno in questa sede di riproporli.

Pare poi che sarà “Il welfare aziendale a salvarci”. Certo, è una risorsa, così come lo è l’iniziativa privata in questo ambito. Una recente indagine della Commissione Europea afferma che fra il 50 e il 60% dei giorni di lavoro persi in Europa sono dovuti a problemi di stress. Nella sola Gran Bretagna, si perdono per problemi di questo tipo circa 10 milioni di giorni lavorativi all’anno, mentre in Francia il costo dello stress è stimato fra i due e i tre miliardi di euro ogni anno. E ancora, i costi diretti legati allo stress equivalgono a qualcosa come il 4% del Pil europeo. Così le grandi aziende cercano di fornire servizi di svariata natura ai propri dipendenti. La prospettiva è affascinante e può essere anche produttiva da un punto di vista di costi e benefici per un’azienda. Dal servizio di lavanderia per gli impiegati al maggiordomo aziendale che sbriga le pratiche in orario di lavoro, dalla conciliazione casa-famiglia all’assistenza sanitaria le possibilità sono molte. Ma le dimensioni e l’utilità effettiva che può raggiungere il welfare 3.0 paiono limitate vista la composizione del tessuto economico italiano caratterizzato da piccole imprese e con la crisi che minaccia molti settori dell’industria. Oggi è fortemente concentrato sull’alimentazione (nel 79% i buoni pasto) e difficilmente può soddisfare da solo le esigenze reali della sempre più larga fetta di popolazione, soprattutto giovane, priva di lavoro stabile e di diritti.

Infine il decimo luogo comune sul welfare che abbiamo raccolto dalla strada e vogliamo sfatare: “Le cooperative sociali sono parassite del settore pubblico”. Spesso si pensa che le cooperative sociali di tipo A e B vivano di privilegi, come quelli fiscali, e dipendano solamente dai soldi pubblici. Approssimazioni che si manifestano in particolare quando si parla di realtà che operano nell’assistenza sociale e socio-sanitaria, che ne rappresentano la maggioranza. In realtà la cooperazione è un settore economico molto vitale: il 32% delle cooperative sociali italiane è in crescita, un dato nettamente superiore a quello delle aziende non cooperative, come ha dimostrato una ricerca dell’European Research Institute on Cooperative and Social Enterprises (Euricse). Sono 6mila le realtà produttive e 230mila le persone occupate. Molte di loro non si limitano a ricevere fondi dal settore pubblico per gestire i servizi, ma cercano ogni giorno di innovare e innovarsi.

La nostra rassegna, incompleta e non ce ne vogliano i lettori, è terminata. Il libro è molto altro.

Sfatati i luoghi comuni, chiarito che sui diritti non si transige, “Tra il dire e il welfare” mostra poi una strada diversa. Racconta storie inedite di welfare responsabile e quotidiano, che non guarda alla singola prestazione ma al benessere di tutta la società. Una “cura” che possiamo definire “welfare di relazione”, i cui protagonisti sono i Comuni -primi attori del “welfare locale”-, le aziende -che recitano una parte importante anche se non sono i deus ex machina-, il Terzo settore -non solo importante controfigura del pubblico, ma eroe dei più deboli-, e i cittadini -per nulla comparse, anzi spesso in primo piano-. “Tra il dire e il welfare” ci sono insomma idee e buone pratiche che possono aiutare a estendere le protezioni del welfare e a rendere più equa la nostra stanca società.


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