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La sfiducia e le zavorre del non profit

di Giulio Sensi

Mi trovo spesso a dialogare o lavorare con persone che operano nel terzo settore: cooperative, organizzazioni di volontariato, Ong. Ho realizzato un pensiero assai evidente e banale nelle premesse, ma meno scontato nelle conseguenze: in una parte consistente del non-profit italiano c’è una crisi di fiducia fra chi lavora insieme.

In particolare una crisi che si sviluppa in due direzioni su due assi diversi: fra dirigenti e operatori e fra lavoratori e volontari.

Nel suo periodo di massima crescita, nel ventennio che va dall’approvazione delle legislazioni di settore fino a prima dell’attuale crisi, il non profit ha vissuto, contestualmente all’economia italiana e all’aumento della spesa pubblica, un trend di crescita notevole.

Questa crescita ha portato alla necessità di assumere persone qualificate, talvolta provenienti dalle fila dei volontari, altre volte pescati fuori dall’associazione. Tali assunzioni sono state compiute spesso con contratti, giustamente, a tempo indeterminato e inserendole in ruoli chiave.

Oggi, ed è un ragionamento che vale soprattutto per alcune Ong e per molte cooperative, assumere non è più possibile e siamo di fronte a strutture sempre più sovradimensionate e statiche rispetto alle esigenze di flessibilità, di riorganizzazione e innovazione necessarie. Con l’impossibilità frequente a mettere in campo nuovi progetti innovativi, visti anche lo scarso entusiasmo e capacità di mettersi in gioco di chi si è un po’ usurato, dopo aver lavorato anni e anni in un clima poco motivante.

Si è dovuto negli anni mettere in piedi strutture (come nel caso di associazioni che hanno dovuto fondare cooperative per regolarizzare le attività prima spontanee) che sono state affidate ad ex volontari che difettano di competenze e dimenticano, nel rapporto con i nuovi volontari, la loro “umile” origine di prestatori gratuiti d’opera. Il risultato è un conflitto latente e una demotivazione crescente. Diciamocelo: anche per questo il non profit chiude, non solo a causa della crisi.

A volte i dirigenti sono in grado di mettersi in discussione, innovare e dare fiducia a percorsi di rinnovamento. In altri casi questo non accade. La ancora alta incapacità di fare rete, di lavorare orizzontalmente fra strutture, di aggregarsi su progetti ampli e articolati danneggia ancora di più un settore che comunque rimane, fortunatamente, strutturalmente più in grado di altri di far lavorare giovani, donne e immigrate, cioè le energie più fresche.

L’incapacità di dialogare, di trovare soluzioni condivise, di sentirsi parte di uno stesso progetto attenta allo stato di salute del non profit anche e soprattutto nelle strutture che mischiano operatori pagati a volontari di ogni età. Oggi chi è pagato dovrebbe risolvere i suoi sensi di colpa, laddove presenti, e mettere i volontari, con pazienza e competenza, nelle condizioni di operare al meglio e i volontari, dal canto loro, dovrebbero superare certe visioni puriste e facilitare la ricerca di soluzioni condivise. Senza dividersi in fazioni “buoni” e “cattivi” come quasi sempre accade.

Re-imparare a lavorare insieme e a trovare decisioni condivise e certe: sono due priorità per migliorare il clima interno, e in definitiva anche la reputazione, del non profit.

Sono alcune, certo non le uniche, zavorre del non profit di oggi. Il quale, visti i tempi di crisi, dovrebbe impegnarsi a superarle.

 


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