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Sanità & Ricerca

Quando l’aiuto è “imposto”.

di Noria Nalli

È difficile parlarne senza essere fraintesi o passare per degli ingrati, ma è comunque importante discuterne. Noi disabili non siamo per forza di cose dei derelitti, in perenne attesa del buon samaritano, ma delle persone con una loro dignità che cercano di gestirsi in modo personale ed autonomo. Quando cammino per strada col mio deambulatore, salgo delle scale, mi siedo da qualche parte o devo entrare in un negozio, capita a volte che qualcuno mi domandi se ho bisogno d’aiuto. Chi si rivolge a me, rimane spesso stupito se io rispondo: “No, la ringrazio molto, ma faccio da sola”. Questa situazione penso che si verifichi molto spesso nei confronti di una persona disabile come me. Ripeto, è molto facile essere fraintesi. È chiaro che anche noi, come qualunque altra persona, non rifiutiamo a priori di essere aiutati, soprattutto se ci troviamo in pericolo o in seria difficoltà. Se dobbiamo compiere un’azione normale, preferiamo invece far da soli. Ribadisco che, come chiunque, “abile” o meno, abbiamo sperimentato le nostre strategie di movimento, che ci permettono di essere il più possibile autosufficienti. Io ad esempio, per scelta personale, scendo le scale di accesso al portone di casa, appoggiandomi in modo molto particolare al deambulatore. Chi mi chiede di prederlo di peso e portarlo per le scale al posto mio, non mi aiuta affatto, anzi mi scombina tutta una serie di sequenze di azioni, acquisite in anni di esercizio, se mi confondo, rischio davvero di cadere. Capitano poi le persone che saltano la fase della proposta verbale di aiuto per passare direttamente all’azione. C’è chi ti piomba alle spalle, chi apre con decisione una porta a cui ti stavi tenendo e chi ti toglie di mano il manubrio del deambulatore. Insomma noi non siamo presuntuosi, chiediamo solo rispetto. Anche le operazioni di assistenza hanno le loro modalità. Aiutare richiede altruismo, ma anche capacità di ascolto ed esperienza.


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