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Azzardo: tre domande a Massimo Carlotto

di Marco Dotti

Nel suo ultimo lavoro, Le vendicatrici (Einaudi, 2013), un posto centrale è occupato dal gioco. C’è Renzo, che si gioca tutto, c’è una barista che tenta di metterlo in guardia – «sono tutte taroccate», dice delle slot machine che ossessionano Renzo – c’è una malavita fatta di usurai, palazzinari e politici che, anche attraverso il gioco d’azzardo di massa, a poco a poco si impossessa di un intero quartiere di Roma. C’è una donna, la moglie di Renzo, che si trova a lottare, con i debiti e con un senso di colpa, quello di «non aver voluto affrontare il problema della dipendenza dal vizio del gioco». Come è arrivato a occuparsi anche della questione del gioco d’azzardo?

Massimo Carlotto: Con Marco Videtta, il coautore delle Vendicatrici, ho studiato tre anni, studiato a fondo la situazione di quell’altra economia (chiamiamola così) che sta travolgendo le nostre città. L’ho studiata in particolare a Roma e devo dire che quello del gioco d’azzardo mi è apparsa subito come una delle realtà più dure. Dure per tutti, ma dure anche per le donne, che sono al centro del progetto delle Vendicatrici. Non amo la retorica, ma nel caso delle slot machine la frase «il banco vince sempre» è tutto fuorché retorica. Il banco vince sempre non solo perché è logico così: questi apparecchi sono lì per prendere dei soldi a gente disperata o al limite della disperazione e trasferirli nelle tasche di chi li farà fruttare su altri fronti. Ma oltre la logica, c’è anche l’impossibilità tecnica…

Si riferisce al caso delle macchinette “taroccate”, di cui parla nel primo libro delle Vendicatrici?

Massimo Carlotto: Mi riferisco proprio a quello. C’è un’evidenza che non è romanzesca, ma che nel romanzo ovviamente abbiamo messo in scena, quando la barista – Sara – tenta di avvertire il cliente – il marito di Eva – che è inutile rovinarsi, tanto è tutto truccato, ma poi viene punita in modo molto duro dalla malavita, che non tollera certo chi si preoccupa per gli altri. C’è un’evidenza, dicevo, che non è romanzesca, basta girare per strada e guardare. Il crimine di oggi è però molti diverso da quello di un tempo. Il mondo criminale, oggi, ha bisogno di agganci di corruzione per poter funzionare. Ad esempio, la sofisticazione alimentare è oggi possibile perché si è diffusa la corruzione: è un tipo di crimine che può funzionare solo in presenza di corruzione e di corrotti. Nel gioco d’azzardo avviene lo stesso. Molte “macchinette” non sono esattamente quello che dovrebbero essere e il banco vince più di quanto, sulla carta, dovrebbe o potrebbe vincere. La cosa paradossale è che a guadagnare in maniera massiccia sono da una parte lo Stato e dall’altra la criminalità organizzata. È la prima volta che accade e accade proprio qui, col gioco d’azzardo.

Sembra un luogo comune, lei lo ha verificato?

Massimo Carlotto: È un dato di buon senso, che io e Videtta abbiamo toccato con mano in molte sale gioco, non solo a Roma. Il gioco di questo tipo è un gioco che, una volta messo nelle strade e nei bar, ha prodotto un fenomeno veramente preoccupante di collusione tra istituzioni e criminalità, quando alla spartizione del grosso della torta. Andrebbe vietato, perché non ha nulla di positivo. Andrebbe vietato per la solitudine che produce, per la miseria che genera. È un fatto di civiltà.

[Gorizia, 22 maggio 2013, Festival “È Storia”]

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