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Fede, fondamento della comunità. Due parole con Padre Enzo Bianchi (1)

di Marco Dotti

La fede, ci racconta padre Bianchi, priore della Comunità di Bose, «non è adesione a una verità dello stesso ordine delle esperienze sensibili, ma un cammino verso il non conosciuto». Per questo la fede espone a un rischio. Ma espone anche a una certezza. La fede, prosegue infatti Enzo Bianchi, oggi in visita alla Cittadella di Assisi, è un itinerariointimamente umano. Se la fede è difficile? «Certamente, proprio per questo  dobbiamo pensarla come quell’atto, di cui ci testimoniano le Sante Scritture, che consiste nel mettere il piede sul terreno solido».

In questa ricerca di un terreno solido, la fede appare come «necessità umana e realtà antropologica fondamentale». Una fides qua, rimarca  Bianchi, ribadendo un interessante distinguo teologico.  Fides qua, ovvero l’atto del credere, col quale il credente si affida a Dio, assumendo il contenuto delle fede come vero.  Fides quae, ossia il contenuto della fede. 

La «fides qua» è la fede con la quale si crede, l’adesione libera di un affidamento. Oggi, non solo la fede in qualcosa, ma la fede in sé, e la stessa fiducia sembrano minate alla base dal sospetto, dalla precarietà, dall’incertezza, dalla frammentazione del reale e dalla lacerazione del soggetto: effetti perversi di una crisi di cui a fatica percepiamo  i risvolti non puramente finanziari.

Ma oggi, proprio oggi, chiediamo a padre Bianchi, in un mondo che ha già sperperato ogni fiducia, si può vivere senza un’ultima riserva di fede? «Non c’è vita senza fede. Come scriveva un grande teologo: “se io non credessi a nessuno, fosse pure in modo minimale, finirei per impazzire, e molto rapidamente». 

 


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