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18 anni fa il massacro di Srebrenica

Il racconto di Hajra Catic, fondatrice dell'Associazione Donne di Srebrenica e che pubblica un Bollettino periodico

di Redazione

Hajra Catic, originaria di Srebrenica, da dove è stata cacciata l’11 luglio 1995, oggi vive a Tuzla, dove assieme ad altre donne ha fondato l’Associazione Donne di Srebrenica (Zene Srebrenice), che tra le altre cose pubblica un Bollettino periodico (Bilten Srebrenica). Nel massacro di Srebrenica, Hajra ha perduto il marito e il figlio Nihad ‘Nino’, un reporter di Srebrenica che allora aveva 26 anni e che fino all’ultimo ha cercato di attirare l’attenzione della comunità internazionale sulla tragedia incombente.

 

Serebrenica è il più grande genocidio avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale

Quello è stato l’ultimo giorno in cui vidi mio marito e mio figlio Nihad. Nino, resosi conto del precipitare della situazione, era fuggito attraverso il bosco in direzione di Tuzla, dove non arrivò mai. Era un giornalista di Srebrenica. Aveva raccontato l’assedio della nostra città fino all’ultimo giorno. Il 10 luglio aveva lanciato un appello al mondo: “Aiutateci o questa sarà l’ultima volta che sentite la mia voce. Non rimarrà nessuno a Srebrenica”.

E così è stato.

Io e mio marito, con altre 25.000 persone, ci muovemmo in direzione di Potocari. Lì i serbi presero mio marito. Vidi dove lo portarono. Tutte le famiglie furono separate e gli uomini, dai 12 agli 80 anni, furono portati via. Noi donne, coi bambini, fummo caricati su dei camion alla volta di Kladanj. Da Kladanj arrivammo infine a Tuzla.

Mio figlio scomparve durante il viaggio da Srebrenica a Tuzla. Non seppi più niente di lui. Il suo corpo non fu mai trovato, né identificato fra quelli riesumati. Dopo otto anni vivo per il giorno in cui potrò seppellire il suo corpo nel memoriale di Potocari, assieme a quello di tutte le altre vittime di quel massacro.

Arrivati a Tuzla, sapemmo cos’era successo ai nostri uomini. Più di 10.000 persone risultavano scomparse. Ci rendemmo conto definitivamente di quale tragedia avesse colpito la nostra città.
Srebrenica era stata dichiarata dall’Onu “area protetta”, così dal 1992 al 1995 vi erano confluiti anche i profughi sfollati dagli otto villaggi dell’area circostante. La prima ondata di pulizia etnica infatti era cominciata nel 1992, con l’arrivo dei gruppi paramilitari nei villaggi circostanti.
Quei tre anni erano stati un inferno, e però io ancora oggi sottoscriverei di vivere anche per tutta la vita in quelle condizioni, se questo significasse avere ancora vicini mio figlio e mio marito…
Comunque erano stati anni infernali. Eravamo chiusi in una specie di enorme campo di concentramento, non avevamo niente, ma proprio niente, né cibo, né medicine, né elettricità o acqua, e ad ogni angolo c’era la morte in agguato per noi.

Mio figlio nelle ultime settimane aveva scritto dei versi su questo senso di attesa cui solo la morte incombente avrebbe posto fine…

Di fronte a dove lavoravo, presso la municipalità, c’era l’ospedale. Lì per tutto il tempo venivano portati i feriti. I medici erano costretti ad amputare gambe e braccia senza anestesia. La sofferenza dei pazienti, le loro grida erano qualcosa di semplicemente intollerabile… Alla sera, al momento di coricarmi avevo ancora quelle urla nelle orecchie.

Dal 1992 eravamo rimasti chiusi e bloccati all’interno di Srebrenica. Un’enorme prigione a cielo aperto in cui avevano ammassato circa 45.000 persone impossibilitate a lasciare la città. Ricordo che da un certo punto in poi sembrava che la stessa aria che respiravamo puzzasse. Un senso di soffocamento che ho ancora ben presente, qualcosa di indescrivibile.

Intanto le colline venivano occupate dalle milizie serbe che non permettevano né di uscire né di entrare; non lasciavano entrare nemmeno i convogli che portavano il cibo. Così, presto, anche i convogli di aiuti umanitari smisero di arrivare: venivano fermati prima.

Come sopravvivevamo? Per un periodo ci venivano lanciati vari generi di prima necessità dagli aerei o dagli elicotteri. L’ultimo anno un solo convoglio entrò a Srebrenica. In quell’occasione ricevemmo due chili e mezzo di farina a testa. Anche i pochi convogli che arrivavano, del resto, venivano prima fermati a Bratunac, sotto controllo serbo, e dopo quella sosta a noi arrivava al massimo qualche vecchia coperta e poco altro.
Alcuni dei profughi arrivati a Srebrenica dai villaggi vicini, per sopravvivere, a volte di notte tornavano ai loro campi per raccogliere qualcosa da mangiare. I nazionalisti serbi delle varie milizie avevano ormai occupato tutti quei villaggi e bisognava muoversi solo a notte fonda. Correvano rischi gravissimi per portarsi via un po’ di granoturco, quello che potevano nascondersi addosso.

Come eravamo vissuti a Srebrenica fino all’inizio della guerra, fino al ’92? Già, è una domanda a cui è diventato difficile rispondere. Si viveva assieme, i bambini andavano a scuola assieme, avevamo degli amici. Oggi, però, non so più se posso usare questa parola, “amici”. In molti casi noi pensavamo lo fossero, invece poi è successo quello che è successo. Ancora oggi, quando vado a Srebrenica e li vedo… beh, certo non sarà mai più come prima. Perché è vero, i primi ad arrivare furono i serbi dei vari gruppi paramilitari, che venivano da fuori, c’erano le Tigri di Arkan, e però poi anche i nostri vicini di casa… E’ inutile, io allora li riconobbi i miei vicini, li vidi girare per le case, armati, a rubare, a fare gli sciacalli. E oggi quando torno a casa, a Srebrenica, e li vedo, perché vivono ancora lì … E’ difficile, molto difficile.

Com’è potuto accadere? Non si può immaginare il senso di enorme rabbia e delusione e frustrazione che noi ancora proviamo verso l’intera comunità internazionale, che non ci ha protetto. Che non ci ha voluto proteggere, rendendosi così complice del massacro di Srebrenica.
A distanza di tempo, si è infine parlato di accordi, di patti, per cui Srebrenica sarebbe stata ceduta, venduta, lasciata cadere. Non a caso il governo olandese qualche mese fa è caduto in seguito ai lavori di una commissione d’inchiesta sul comportamento delle truppe olandesi di stanza a Potocari.
Ma noi già sapevamo tutto. Quando ho detto che la comunità internazionale è complice intendevo appunto questo: ci sono state riunioni e accordi tra rappresentanti della comunità internazionale e i nazionalisti serbi. Srebrenica fu lasciata cadere.

Dopo il nostro arrivo a Tuzla, nel 1995, non ci siamo perse d’animo e con altre donne abbiamo voluto fondare un’associazione “Zene Srebrenice” (donne di Srebrenica), che ovviamente è aperta a tutte le persone che hanno a cuore quello che è accaduto agli abitanti di Srebrenica. Ci rivolgiamo innanzitutto alle famiglie che hanno avuto dei lutti o i cui componenti risultano ancora oggi scomparsi dalla zona protetta di Srebrenica.
La ragione dell’esistenza di quest’associazione è la lotta per la giustizia e la verità. Per noi questo significa intanto sapere cosa ne è stato degli uomini scomparsi. Stiamo infatti facendo pressioni affinché vengano accorciati i tempi della riesumazione e identificazione dei corpi trovati nelle fosse comuni. E poi stiamo ugualmente facendo pressioni affinché i criminali di guerra vengano catturati e consegnati alla giustizia.
Negli ultimi tre anni abbiamo lottato anche per avere in concessione un pezzo di terra per costruire un memoriale. Infine l’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina ha dato il permesso di utilizzare l’ex base del contingente olandese, Potocari, per seppellire i corpi identificati. Potocari è un luogo emblematico perché è anche la sede della fabbrica in cui i nostri uomini sono stati internati e uccisi. Lì poi c’era appunto il battaglione olandese dell’Unprofor. Tutto si svolse davanti ai loro occhi.

Quel terreno comunque non sarebbe stato sufficiente per seppellire tutte le vittime del massacro, così abbiamo chiesto che ci venisse assegnato anche il terreno della fabbrica di accumulatori, che si trova lì accanto.

Ricordo ancora le riunioni con i responsabili del governo locale cui partecipammo in quel periodo; quando si arrivò alla discussione sul luogo da destinare al nostro memoriale i serbi che partecipavano uscirono in massa dalla stanza, per protesta. Noi comunque non ci siamo mai lasciati scoraggiare e infine l’Alto Rappresentante ci ha autorizzato. Per loro è stato uno shock: pensavano che nessuno di noi, una volta cacciato dalla propria casa, avrebbe più potuto rimetterci piede. Pensavano che nessun musulmano sarebbe mai rientrato a Srebrenica. Invece noi non abbiamo mai mollato e alla fine ce l’abbiamo fatta.
Fino ad oggi abbiamo identificato e dato degna sepoltura a circa 600 corpi; l’11 luglio in occasione della commemorazione ci sarà un’altra sepoltura; ad oggi altri 205 corpi sono stati identificati.
Sul bisogno di seppellire i nostri morti potremmo parlare per ore. Certo è che questa ricerca della verità non sarà foriera di gratificazioni per noi, semmai di maggiore dolore, soprattutto dal momento che fino ad oggi non uno delle migliaia di scomparsi è stato trovato in vita.

La prima volta che sono tornata a Srebrenica è stato nel 1997. Dopo la fine della guerra, con gli accordi di Dayton, noi abbiamo subito iniziato a chiedere il permesso di andare a visitare i nostri cimiteri; ovviamente era un alibi. Ci sono voluti dei mesi, ma alla fine ci hanno dato l’autorizzazione. La prima volta però la visita era limitata appunto al solo cimitero, quindi non siamo entrati in città. Dopo qualche mese comunque, nel corso delle varie visite, abbiamo iniziato ad avvicinarci alla città, e alla fine siamo entrati a Srebrenica.
Oggi io posso tornare nella mia casa. I serbi che vi si erano rifugiati sono stati sfrattati. In genere ci vado e mi fermo qualche giorno, poi rientro a Tuzla. Ancora non ce la faccio a tornarci definitivamente.
Le condizioni della casa erano buone. Beh, non era stata distrutta, però tutto quello che si poteva prendere, l’avevano portato via. E’ da due anni che ci lavoro e ancora non ho finito.

È difficile da spiegare l’effetto che fa tornare a casa. Intanto perché c’è questa condizione di schizofrenia per cui la maggior parte di noi ancora non ha deciso di tornarci a vivere stabilmente. Però la risposta alla domanda se pensiamo prima o poi di tornare a vivere a Srebrenica direi che sta tutta in questa lotta per seppellire i nostri cari in quel luogo: io certo non seppellirei i miei familiari a Srebrenica se non pensassi di tornarci un giorno a vivere definitivamente. E come me molte altre persone.

Oggi sono rientrate circa 1200 persone nell’intero territorio del Comune di Srebrenica, inclusi i villaggi circostanti. Nel Comune di Bratunac sono rientrate circa mille persone. A Srebrenica sono tornate più persone in città che nei villaggi; a Bratunac sono rientrate più persone nei villaggi che nella cittadina.
La maggior parte dei rientrati è costituita da anziani, spesso malati. Le fabbriche non sono più in funzione, non c’è lavoro, quindi è difficile che tornino i più giovani.

I rapporti con i serbi poi rimangono un altro grosso punto di domanda. Per il momento si esauriscono nei rari “Buongiorno e buonasera”. Punto. Non ci sono altri contatti e, forse, mai ci saranno. Se qualcuno ti saluta tu ricambi. Nient’altro.

Del resto molti pesci piccoli sono rimasti a vivere lì, nell’assoluta impunità. E tu li vedi camminare per strada… certo, se ci va chiunque altro non potrà mai sapere chi sono, cosa hanno fatto, ma noi sì, noi sappiamo chi sono i criminali; e anche loro sanno che noi sappiamo.

Così ci si incontra, ci si riconosce. I più sfacciati quando incrociano il nostro sguardo sorridono in modo sprezzante… Dicono che Srebrenica è la “città morta”. E’ così. Perché poi anche tra i serbi coinvolti nel massacro e quelli arrivati durante la guerra come profughi ci sono tensioni. Questi ultimi infatti, se ne hanno la possibilità, se ne stanno andando.

Se coprano i loro connazionali non lo so. A me sembra non vadano così d’accordo. Si sente che c’è qualcosa che non va. C’è tensione nell’aria, un’atmosfera pesante.

Oggi comunque nel governo locale ci sono perlopiù i serbi arrivati durante la guerra. Io ho partecipato a varie assemblee e in effetti è tutta gente originaria di altri luoghi, fuggita anch’essa dalla guerra. Anche a Bratunac ci sono soprattutto serbi originari di Sarajevo.

Oggi siamo qui con la tv accesa in attesa di vedere le udienze all’Aja. Già, l’andamento dei lavori del Tribunale dell’Aja: c’è qualcosa di molto difficile per noi da accettare; ultimamente l’indicazione che ne esce è infatti: “Dichiara le tue colpe, ti verrà dimezzata la pena”. Non possiamo essere felici di queste misure. Quando è stato istituito questo Tribunale noi confidavamo che si sarebbe arrivati alla verità e alla giustizia. Ora siamo un po’ amareggiate. Man mano che il tempo passa le nostre speranze si affievoliscono.

Ora comunque siamo impegnate nell’organizzazione delle iniziative da prendere per il prossimo 11 luglio. La nostra vera battaglia infatti è volta a preservare la memoria di quella tragedia. E’ vero che una parte della popolazione vuole solo dimenticare, ma questo è normale. La maggior parte della gente vorrebbe metterci una pietra sopra e ricominciare. Ma è troppo presto per dimenticare. Noi quindi lottiamo contro questa tentazione: ogni 11 luglio a Tuzla organizziamo piccole manifestazioni per ricordare. Ogni anno attraversiamo la città per farci vedere, per far ascoltare la nostra voce.

Riceviamo degli aiuti dall’estero. Un’organizzazione internazionale per la ricerca delle persone scomparse finanzia questo centro e varie attività. C’è anche una collaborazione col Tribunale dell’Aja, anche se, come dicevo, non condividiamo molte delle scelte fatte, in particolare quella di abbonare parte della pena a chi confessa i delitti commessi. Lo ripeto, per noi tutto questo è molto difficile da accettare. Soprattutto alla luce del fatto che chi è tornato a Srebrenica oggi non ha vita facile.

Chi ha figli esita a tornare; mancano le condizioni per una reale “normalizzazione”: l’insegnante di tuo figlio potrebbe aver ucciso un tuo parente. Il programma scolastico è quello serbo… Chi si ammala va a Sarajevo o a Tuzla a farsi curare. Insomma, non è facile.

Il fatto è che c’è qualcosa di più forte, un legame, una forza di attrazione che ci porta comunque a voler tornare lì, a casa nostra. Io continuo a sentirmi meglio nella mia vecchia casa, a Srebrenica; meglio che in qualsiasi altro luogo; non so se ci sia anche un senso di rivincita, di rivalsa; è difficile da spiegare, ma è così.
Io a Srebrenica ci sono nata, mi sono sposata, ho cresciuto i miei figli; lavoravo come segretaria presso la Presidenza del Comune. Era una città ricca, c’era il turismo, e poi le fabbriche lavoravano a pieno ritmo, impiegando operai chiamati da tutte le zone circostanti. C’erano anche miniere importanti. Soprattutto c’erano le terme, uniche in Europa per gli effetti benefici delle nostre acque, in particolare per curare varie forme di anemia. La gente arrivava dall’intera ex Yugoslavia, oltre che dagli altri paesi.

Oggi guardate cos’è diventata. Eppure c’è qualcosa dentro di me che mi spinge a voler tornare.

Rispetto al futuro è ancora difficile fare programmi. Per il momento viviamo alla giornata, aspettiamo. Molte delle donne dell’associazione provano ancora sentimenti controversi; alcune non hanno alcuna intenzione di tornare; qui ci sono donne con due o tre figli che ancora vanno a scuola, come si fa? E’ normale che non se la sentano di tornare. Se poi hanno i figli grandi, che casomai frequentano l’università, come tornare in un luogo in cui non c’è alcuna possibilità né di studiare, né di lavorare? I figli sono un fattore di resistenza rispetto al ritorno: chi non torna lo fa per i figli, per non mandarli in una scuola in cui devono studiare la storia dal punto di vista dei serbi. Per qualcuno c’è troppo dolore sulla strada del ritorno.

Se ci fossero i nostri insegnanti, i nostri professori, i nostri medici, sarebbe diverso. Ma oggi, per dire, nella polizia di Srebrenica ci sono solo sei bosniaci. E la beffa è che non hanno l’autorizzazione a portare le armi. Come possiamo sentirci protetti, al sicuro, in una tale situazione? Nel governo locale, il sindaco e il vicesindaco in effetti sono musulmani, ma in fondo non hanno alcun potere.
No, non è abbastanza. Questo non ci basta.

Nel censimento del ’91 il 75% della popolazione di Srebrenica risultava costituita da bosniaci musulmani; per una reale normalizzazione bisognerebbe che quella percentuale fosse rispettata anche nelle varie istituzioni, nella polizia, nel Comune.

È vero, ora i serbi arrivati durante la guerra se ne stanno andando, però stanno comunque comprando casa a Bratunac, Zvornik, così noi comunque finiremo per sentirci sempre “assediati”. Voglio dire, se per andare a Srebrenica, da Tuzla devo continuare a passare per Zvornik, Bratunac, sapendo che ci vivono loro…

Il mio figlio maggiore oggi vive in Svezia. Aveva lasciato Srebrenica nel ’92 per studiare. Si è sposato con una ragazza di Srebrenica che ha reincontrato dopo la guerra. Oggi hanno due figli. Lui non è mai più tornato a Srebrenica e ora ci sta pensando. Mi ha già detto che comunque non vuole trascorrerci la notte. La prima volta per lui sarà molto dura: tornerà in quella casa e non troverà né il fratello né il padre…

Link al dossier di Amnesty International

da Una città di Hajra Catic
 

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