Il caso Michelle Comi

Adozioni a distanza, la fake radio di Cruciani e Parenzo

Michelle Comi, 29 anni, influencer e content creator con 589mila follower, ha annunciato di essere «diventata mamma» del piccolo Momo, un bambino senegalese di sei anni che ha adottato a distanza. Ha mandato zainetti, profumi, palloni e borracce firmate... «anziché fare come le associazioni che adottano a distanza e ai bambini fanno arrivare un pugnetto di riso e un po' di acqua», ha detto in radio a La zanzara, da Giuseppe Cruciani e Davide Parenzo. «Io faccio vivere bene mio figlio, gli altri invece li fanno vivere di merda». Ecco, cara Michelle, questo anche no

di Sara De Carli

È fin troppo facile, riguardando i reel e riascoltando le interviste alla Zanzara, liquidare il tutto come agghiacciante e surreale. Diciamolo pure, anzi: uno schifo. Fin troppo facile, dall’altra parte, dare dello snob e del benpensante a chi provi a dirlo e critichi i modi e la sostanza di una vicenda che sta tenendo banco da ormai da due settimane, un tempo infinito per i social. O ribaltare le accuse – come fa la cantilena da bambini? “specchio di gomma, la parola ti ritorna” – dicendo che chi critica Michelle Comi in realtà stia solo cercando visibilità. No. Solo che dinanzi al falso è impossibile tacere. 

La vicenda è quella che ha per protagonista Michelle Comi, 29 anni, influencer e content creator con 589mila follower, frequente ospite di Giuseppe Cruciani e Davide Parenzo a La zanzara, celebre per aver raccolto 15mila euro in 24 ore per rifarsi il seno. Una che si atteggia a dire che se ha troppe cose da fare in un giorno, per esempio la manicure e il parrucchiere, lei va «in burnout». Comi è «diventata mamma» (citazione sua) di un bimbo senegalese di sei anni, Momo, di cui posta foto e video sui suoi social. Per il suo «piccolo Momo» ha acquistato un kit completo di “non posso vivere senza”, ovviamente tutto brandizzato e tutto svelato con un unboxing.

La famiglia del piccolo Momo, giura lei, ha dato il suo consenso a pubblicare le foto del bambino e noi speriamo vivamente che qualcosa da questa storia ci stia guadagnando. 

Ora, sia chiaro: con i suoi soldi, Michelle Comi ci può fare quel che vuole. Su questo ha ragione: pure regalare ad un bambino di sei anni zainetti, profumi e palloni firmati, da 1.500 euro in sù, perché al di sotto è roba da pezzenti. Vuole regalare al «piccolo Momo» un pallone da 1.500 euro perché «sono famosi no in Africa per giocare bene a calcio?». Lo può fare. Dopodiché guardando il video a me vien da dire che non ci creda neanche lei – che ha 29 anni, non 14 – che in Senegal per un bambino di sei anni sia «essenziale» avere uno zainetto firmato Luis Vuitton o che nella scuola che il «piccolo Momo» finalmente ha iniziato a frequentare farà davvero la differenza avere l’Agenda 2026 con il monogramma… Per come il personaggio è costruito e per come ha impostato tutta la comunicazione di questa sua «adozione» è evidente che di questo stiamo parlando: di personal branding. Vuole aiutare un bambino povero africano senza passare da una organizzazione? Non sarà la prima, né l’ultima: di disintermediazione del giving parliamo da anni. Vuole sfruttare la beneficenza a fini di personal branding o fare la foto opportunity con il bambino nero? Ben arrivata. E qui ci fermiamo, nel senso che questo non è un processo alle intenzioni o una lezione di moralità: in privato, senza telecamere, follower e ascoltatori, può essere benissimo che Comi – tolta la maschera dell’influencer – a cambiare la vita del piccolo Momo ci tenga per davvero. 

Il gioco del silenzio no

Quello che Michelle Comi però non può fare è dire falsità. Su questo al gioco del silenzio noi non ci giochiamo. Ed è qui che entra in scena La Zanzara di Giuseppe Cruciani e Davide Parenzo, che monta a dismisura tutto il chiacchiericcio che c’è sui social sotto e attorno ai reel e ai post della Comi. Lei in trasmissione il 28 ottobre recita il ruolo della vittima e della benefattrice incompresa: «Siete un popolo di ipocriti perché prima mi rompete i c. che mi faccio mantenere e che con tutti i regali che mi fanno potrei fare beneficenza, poi faccio beneficenza e mi dite “Eh no non la stai facendo nel modo giusto”», si lamenta lei. Cruciani ovviamente le dà manforte, «invece di far star bene mille bambini ha deciso di farne stare benissimo uno, affari suoi».

Un pugnetto di riso e un po’ d’acqua

E qui arriva il problema. «A parte che non so dov’è il vostro bambino che avete adottato», replica lei indignata a chi la critica. Giusto perché lo ha chiesto e pare la reputi conditio sine qua non per parlare, faccio disclosure: di bambini adottati non ne ho manco uno, ma di sostegno a distanza sì, uno, da undici anni. Il bambino che sosteniamo in questo momento si chiama Shayneward, ha 12 anni e vive in Uganda. La sua famiglia non avrebbe i soldi per comprare divisa, scarpe, libri e quaderni ma – grazie all’associazione con cui ho scelto di attivare un sostegno a distanza – ora tutto questo lo ha, pure se non firmato.

Michelle Comi poi va avanti: «Secondo, anziché fare come le associazioni che adottano a distanza e fanno sopravvivere non vivere i bambini, gli fanno arrivare un pugnetto di riso e un po’ di acqua, io invece faccio vivere bene mio figlio. Gli altri invece li fanno vivere di merda». Cruciani e Parenzo? Muti. Anzi, rintuzzano. Ecco cara Michelle, questo no. 

Anziché fare come le associazioni che adottano a distanza e fanno sopravvivere non vivere i bambini, gli fanno arrivare un pugnetto di riso e un po’ di acqua, io faccio vivere bene mio figlio. Gli altri invece li fanno vivere di merda

Michelle Comi, influencer

All’epoca della Carrà

È vero che il sostegno a distanza è un mondo in difficoltà, ben lontano dagli anni in cui quasi un milione di italiani ne aveva uno e Raffaella Carrà lo portava addirittura in prima serata su Ra1, per dieci puntate, convincendo in un sol colpo 130mila persone ad attivarne uno… ma non merita di essere liquidato così, con quel disprezzo. «Un pugnetto di riso e un po’ d’acqua» anche no, cara Comi. 

Si chiama Sad, non adozione

Oggi gli italiani che dichiarano di avere un sostegno a distanza – si chiama sostegno a distanza, non adozione a distanza, perché non c’è nessun bambino che diventa tuo figlio, cara «mamma Michelle» – sono molti meno: secondo l’indagine Doxa, Italiani Solidali, appena il 4% degli italiani che donano dichiara di averne uno, pari a un italiano su 42. Fra le ong mappate da Open Cooperazione, oggi solo il 36% fa sostegno a distanza, mentre nel 2014 erano il 41%. Nessuno effettivamente sa quanti siano i Sad attivi (e anche questo qualcosa vorrà dire): nel 2022 il coordinamento ForumSad ne contava all’incirca 250mila all’interno della sua rete e non più di un anno fa su VITA si rallegrava del fatto che il calo pareva essersi arrestato, che dopo il Covid non c’era stato alcun ulteriore abbandono e che anzi, diverse realtà sia piccole che grandi vedevano dopo tanto tempo dei segnali di ripresa, a cominciare dall’abbassarsi dell’età media di chi apre un Sad.

Il Sad garantisce una presenza di lunga durata, permette di avere una conoscenza straordinaria dei contesti, aiuta le persone a prendere in mano la propria vita e realizzare il cambiamento che loro vogliono, senza assistenzialismo… per questo continuiamo a crederci moltissimo

«Il Sad garantisce una presenza di lunga durata, permette di avere una conoscenza straordinaria dei contesti, aiuta le persone a prendere in mano la propria vita e realizzare il cambiamento che loro vogliono, senza assistenzialismo… per questo continuiamo a crederci moltissimo», dicono gli operatori, che nel Sad continuano a crederci. «Permette di realizzare interventi molto lunghi, che incidono in profondità e cambiano davvero una comunità. Certo oggi sarebbe anacronistico pensarlo come un’azione che riguarda il singolo bambino». 

L’impatto del Sad

Kalkidan aveva 8 anni quando il suo destino ha incrociato Vincenzo, il suo sostenitore a distanza. Viveva per strada insieme alla mamma e alla sorellina Bethlem: il padre le aveva cacciate da casa dopo che la moglie lo aveva denunciato perché abusava della bambina. Grazie a Il Sole Onlus, Kalkidan ha avuto accesso a cure mediche e psicologiche, ha trovato una nuova casa e ha continuato a studiare. A 15 anni Kalkidan ha vinto una borsa di studio che le ha permesso di frequentare uno dei collegi migliori di Addis Abeba. Il suo sogno oggi è quello di aiutare i bambini che come lei hanno attraversato momenti difficili, per trasmettere loro il coraggio di non perdere la speranza: per questo vorrebbe andare all’università e studiare psicologia o medicina.

Pavani invece viveva in un piccolo villaggio di pescatori, completamente distrutto nel 2004 dallo tsunami che si è abbattuto sul Golfo del Bengala: via le case, le barche, le reti da pesca. Il Sole Onlus, insieme all’associazione locale Srd, avviò un progetto di ricostruzione e così incontrò la ragazzina. La signora Pierangela ha sostenuto Pavani per 14 anni, incoraggiandola nelle sue lettere a seguire i suoi sogni. Pavani è riuscita ad entrare nella facoltà di ingegneria dell’Università Sri Padmavathi MahilaVisvavidyalam di Tirupati e nel 2022 si è laureata, trovando subito lavoro in una grande azienda di informatica. Insieme a Ravi (un altro giovane beneficiario dei sostegni a distanza del Sole) ha fondato l’associazione WE4U, che distribuisce cibo e pasti caldi alle famiglie più bisognose. Con il suo primo stipendio, Pavani ha voluto inviare a Pierangela un regalo, in segno di riconoscenza e di affetto.

L’ong Bhalobasa, insieme all’Università di Roma Tre, pochissimi anni fa ha realizzato una valutazione d’impatto dei suoi Sad nel West Bengala, in India, intervistando circa 400 ragazzi di 14 anni, metà con un Sad attivo e metà senza: «La differenza tra i due gruppi in termini di anni di studio è “solo” di un anno e mezzo, ma il tasso di ragazzi che lavora crolla dal 15% al 3%».

Altro che un pugnetto di riso.

Foto da LaPresse

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