Cinema & Alzheimer
Il film che racconta la demenza con lo sguardo del paziente
"Familiar Touch" è un film struggente sulla condizione umana e su una malattia che non spegne i desideri ma spesso le possibilità di realizzarli. Il film, distribuito da Fandango Distribuzione e supportato da Federazione Alzheimer Italia, sarà nelle sale dal 25 settembre. Lo abbiamo visto in anteprima
N on è solo un film sull’Alzheimer. Familiar Touch è un film sulla condizione umana, struggente, con i suoi silenzi e primi piani che calamitano l’attenzione dello spettatore fino alla fine. Semplicemente fantastica l’attrice protagonista Kathleen Chalfant, capace di trasmettere con la sola mimica facciale emozioni latenti che, sotto la calma apparente, si intuiscono laceranti. Sono il dramma interiore della protagonista Ruth Goldman, costantemente divisa tra lo stupore e la confusione, l’essere consapevole di sé e della propria (e altrui) identità e l’essere vincolata al solo presente, tipico di chi convive con una diagnosi di Alzheimer e la progressiva perdita di memoria.

Un film profondo e delicato che, come ha spiegato la regista Sarah Friedland all’anteprima milanese al Cinema Beltrade, nasce dall’esperienza vissuta in famiglia con la malattia della nonna paterna: «Era lì con noi, ma di lei si parlava già al passato. C’era molto dolore, ma ho capito solo in seguito che quando le persone iniziano ad aver bisogno di cure e di aiuto è come se non le vedessimo più. I film che trattano il tema della perdita di memoria non assumono il punto di vista della persona, ma dei familiari e di chi se ne prende cura. Io ho invece cercato di trasmettere la prospettiva di Ruth, non solo cognitiva ma soprattutto percettiva e fisica».
Un film che riesce a mettere a nudo la vitalità e il desiderio di ogni essere umano, che sopravvivono anche quando diventano di difficile realizzazione. Per questo Ruth è ciascuno di noi e grazie alla Chalfant, attrice anche teatrale, l’immedesimazione è immediata.
I film che trattano il tema della perdita di memoria non assumono il punto di vista della persona, ma dei familiari e di chi se ne prende cura. Io ho invece cercato di trasmettere la prospettiva di Ruth, non solo cognitiva ma soprattutto percettiva e fisica
Sarah Friedland, regista
Nel film, tra gli attori, anche gli ospiti di una residenza. Dopo alcuni incontri preliminari, questi residenti sono stati coinvolti attivamente non solo come comparse o nello svolgimento di altre attività, ma anche come consulenti nel tratteggiare i caratteri dei personaggi. «L’idea deriva dalla mia esperienza di caregiver e di docente di un corso di film making per anziani, dove mi sono resa conto della loro grande creatività e talento» spiega la regista. Le fa eco l’attrice: «Inizialmente, mentre eravamo in pausa tutti insieme, tra un ciack e l’altro, ci tenevo comunque a distinguermi dai residenti, come a dire che io ero lì per il film. Ho trovato in me, ben nascosto ma presente, quell’ageismo che il film denuncia. La verità è che siamo vivi finché non lo siamo. È questa vitalità che dobbiamo onorare».
Ho trovato in me, ben nascosto ma presente, quell’ageismo che il film denuncia. La verità è che siamo vivi finché non lo siamo. È questa vitalità che dobbiamo onorare
Sarah Friedland, regista
Certo, la situazione di Ruth è privilegiata sotto molti aspetti. È, infatti, l’aspetto umano a stare più a cuore alla regista: «Ruth rimane sé stessa anche nella trasformazione cui deve andare incontro» spiega la regista «Da un punto di vista femminista, poi, la perdita di indipendenza per una donna è terribile. L’altro aspetto che per è importante è il desiderio fisico. C’è una terribile collusione tra sessismo e ageismo che spinge a ritenere la sessualità femminile un tabù o a guardarla con condiscendenza, soprattutto a una certa età. Quella iniziale è la prima scena che ho scritto di tutto il film perché onora il desiderio di Ruth, anche se rivolto alla persona sbagliata».

Un film straordinariamente emozionante che ha anche portato alla luce il crescente bisogno di spazi e linguaggi per condividere i vissuti legati dell’Alzhemeir. Da quando Fandango e Federazione Alzheimer Italia hanno iniziato a promuovere insieme la pellicola, in molti tra familiari e cittadini hanno contattato la casa di produzione che, oggi, con Federazione sta già lavorando a un progetto che risponderà a questa necessità diffusa: «È un film delicato che fa del silenzio e dell’attesa un dialogo con il pubblico» ha detto il segretario generale di Federazione Alzheimer Italia Mario Possenti nella sua introduzione all’anteprima milanese. «A ciascun spettatore, la propria sensazione. Al paziente, la speranza, perché dopo la diagnosi la vita va avanti con i suoi desideri e bisogni. I familiari riconosceranno le difficoltà e per le istituzioni un esercizio di riflessione sul bisogno profondo di creare comunità».
Kathleen Chalfant e Sarah Friedland sono reduci da un’estate di presentazioni del film negli Stati Uniti. Racconta la regista: «Negli Stati Uniti non c’è un sistema sanitario nazionale, ci sono diseguaglianze molto profonde, come emerge anche dal film. L’attuale amministrazione americana ha tagliano i fondi per l’assistenza sanitaria; c’è poi la sua politica migratoria, che sta avendo un grande impatto sul lavoro di caregiving. Stiamo vivendo quello che per me è uno dei momenti più spaventosi sia per le persone che hanno bisogno di cure sia per le persone che fanno il lavoro di cura».
Il messaggio finale viene da Kathleen Chalfant, che ricorda l’importanza delle azioni e delle battaglie condotte da ciascuno di noi. «Indubbiamente Ruth vive una situazione privilegiata di accudimento e attenzioni. Ciò è raggiungibile garantendo ai caregiver, alle badanti [usa l’italiano], la giusta remunerazione, il giusto riconoscimento del loro lavoro e delle competenze. Facendo diventare quello del caregiver un buon lavoro».
Il film sarà nelle sale dal 25 settembre. Da non perdere.
Foto di Fandango
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