Cinema & Adozione
“Amata”, i chiaroscuri dell’adozione che cerca una narrazione pop
Il nuovo film di Elisa Amoruso, "Amata", parla dell'adozione prima dell'adozione. Da un lato la giovane Nunzia, alle prese con una gravidanza indesiderata, che sceglie di lasciare la figlia in una culla per la vita; dall'altro Maddalena e Luca, la coppia che adotterà Margherita. In mezzo tutti i temi dell'adozione, vista per una volta da entrambi i lati: chi accoglie e chi lascia. Monya Ferritti, esperta dei analisi del linguaggio che usiamo per raccontare l'adozione, rilegge la pellicola con Miriam Leone, Stefano Accorsi e Tecla Insolia e l'immaginario che disegna
Il 16 ottobre uscirà nelle sale il film diretto da Elisa Amoruso Amata, già presentato al Festival del Cinema di Venezia. La pellicola mette in dialogo due storie, quella di Nunzia (una bravissima Tecla Insolia), studentessa fuori sede che si confronta con una gravidanza non desiderata, e quella di Maddalena (Miriam Leone), una ingegnera che dopo diversi tentativi di concepimento senza esito, sceglie di intraprendere il percorso adottivo insieme al marito, il pianista Luca (Stefano Accorsi). A legare le due donne è Margherita, la bambina in arrivo, attorno a cui si ridefiniscono le scelte di entrambe.
Ispirato al romanzo 10 giorni di Ilaria Bernardini (che firma anche la sceneggiatura) il film rielabora un fatto di cronaca di pochi anni fa, quando nella culla termica della Clinica Mangiagalli di Milano viene ritrovato un neonato. Amata si inserisce in un filone narrativo che trova finalmente spazio anche nel cinema italiano, dopo essere stato a lungo più esplorato in quello francese, basti pensare a Nelle tue mani o a La piccola Lola. Negli ultimi anni, infatti, anche la produzione cinematografica italiana si sta orientando verso storie che affrontano la genitorialità non genetica: Vittoria (2024) segue una donna con un limitato capitale economico e culturale nel percorso adottivo internazionale; Nata per te (2023) porta sullo schermo la vicenda reale di Luca Trapanese e della figlia Alba, aprendo una riflessione sulla paternità e sulle forme familiari non standard; Il più bel secolo della mia vita (2023) affronta il tema del diritto a conoscere le proprie origini genetiche, un nodo spesso trascurato nel discorso pubblico sull’adozione.

La rappresentazione dell’adozione nei prodotti culturali ha un peso che va oltre il racconto individuale. Portare sullo schermo corpi che appartengono al mondo adottivo significa rendere esplicite e riconoscibili esperienze normalmente invisibili, contribuendo anche a ridefinire i confini di ciò che viene considerato famiglia o legame, facendo sì, finalmente, che le relazioni che si creano diventino parte del paesaggio sociale. Quando l’adozione entra nel cinema o nelle serie tv come una delle relazioni familiari possibili, cambia il modo in cui la società si pensa, allargando così il proprio immaginario. In questa dimensione si inserisce Amata, che trova la sua forza nel portare in scena, e quindi nel restituire dignità simbolica, a chi di solito resta ai margini.
Quando l’adozione entra nel cinema o nelle serie tv come una delle relazioni familiari possibili, cambia il modo in cui la società si pensa, allargando così il proprio immaginario. In questa dimensione si inserisce Amata
La scelta di comprimere le vicende nell’arco dei nove mesi di gestazione e di far procedere in parallelo le due linee narrative evidenzia, però, alcuni limiti. La scelta sembra funzionare per Nunzia, che velocemente si deve adattare a un corpo che cambia, alla modifica temporaneo dei suoi obiettivi e stili di vita, ma che mantiene salda la sua agency quando rivendica i propri diritti, dalla richiesta di interruzione volontaria di gravidanza alla resistenza di fronte a modalità sanitarie paternalistiche e prescrittive. Lo stesso però non si può affermare per Maddalena: per lei l’economia narrativa non sembra lasciare spazio ad una elaborazione autentica del vissuto, il passaggio dalla progettualità procreativa alla genitorialità adottiva appare più accelerato che accompagnato e diversi passaggi chiave risultano risolti solo per cenni.
La compressione del racconto incide anche sulla rappresentazione dei servizi sociali. Gli operatori sono tratteggiati per funzione più che come figure professionali credibili, e da questo derivano alcune situazioni semplificate: l’indagine psicosociale procede per domande apodittiche, nei gruppi di confronto tra genitori in attesa riaffiorano cliché, come l’idoneità negata soltanto per una “stanza del bambino” non ancora pronta. Inoltre, i servizi sociali nel dialogo con le coppie in attesa si soffermano sulla funzione della culla termica, finendo per oscurare l’opzione per il parto in anonimato in una struttura sanitaria, che rimane solo sullo sfondo.
La culla termica, infatti, sebbene sia uno strumento scarsamente usato nella realtà, viene molto enfatizzata per esigenze di copione. Sappiamo però che questa “soluzione” presuppone un parto non assistito, in solitudine e con seri rischi per gestante e neonato e va ad interrompere la tracciabilità delle origini. Il parto in anonimato, al contrario, garantisce assistenza e conserva un canale istituzionale che, al compimento dei 25 anni della persona che è stata adottata, può consentire la ricerca delle origini secondo la normativa vigente.

Amata invece riesce a restituire con efficacia il tema dell’infantilizzazione della gestante e del pregiudizio secondo cui le donne sono madri per vocazione e ineluttabilità. La regia mostra con attenzione come la pressione simbolica e istituzionale possa limitare la libertà di scelta e quanto sia ancora fragile il riconoscimento del diritto di non voler diventare madre. Un altro tema affrontato in maniera riuscita è la paternità: il film dà spazio al desiderio e al “lavoro di paternità”, cioè quel processo con cui un uomo costruisce il proprio ruolo di padre, partecipando alle decisioni, alle attese e alla cura. Luca è in scena come parte attiva, entra nei colloqui, condivide i passaggi, prova a restare accanto alla moglie. Nei percorsi di procreazione medicalmente assistita e in quelli adottivi i padri sono effettivamente “ingaggiati” fin dall’inizio nel loro ruolo.

Nella coppia Maddalena–Luca, però, il film mostra anche il contraccolpo di questa scelta: quando il desiderio di diventare genitori non si realizza, la crisi attraversa entrambi. La regia restituisce con precisione come Maddalena si colpevolizzi perché si sente tradita dal proprio corpo e si attribuisce dolorosamente e rabbiosamente il peso della mancata paternità del partner. Qui il racconto è davvero efficace e incisivo, mentre meno convincente è la gestione di come trovino una soluzione i sensi di colpa e il pensiero sul figlio biologico che non arriva. La telefonata del Tribunale per i minorenni per il possibile abbinamento con Margherita avviene senza che le istituzioni abbiano potuto conoscere l’evoluzione della coppia e questo è francamente poco plausibile.
Resta infine in ombra un nodo decisivo: la disuguaglianza sociale. Il film insiste — talvolta in modo dichiarativo — sul divario sociale tra Nunzia e la coppia Maddalena–Luca, per origini, condizioni abitative, reti di sostegno. Ad amplificare ancora di più questa condizione è il trasferimento di Nunzia verso la periferia della città, che ne accentua l’isolamento. È lì che prosegue la sua gravidanza e l’ambiente diventa cassa di risonanza delle sue incertezze e della sua solitudine. Manca uno sguardo sul welfare: i servizi territoriali che funzionano per Maddalena e Luca sono pressoché inesistenti per Nunzia, con consultori, servizi universitari, reti territoriali e sociosanitarie che non riescono a intercettarla né a livello di informazione né per l’accompagnamento. La povertà scivola così da “contesto” a “destino” e la conseguenza è che la condizione di una giovane donna con una gravidanza non desiderata viene rappresentata solo come vicenda privata.
Monya Ferritti, autrice di Il corpo estraneo (2019) e Sangue del mio sangue (2023), cura la pagina facebook “Il corpo estraneo”, è esperta di analisi del linguaggio che usiamo per raccontare l’adozione e l’affido. Le foto del film sono dal pressbook di O1 Distribution
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