Allarme sicurezza a Palermo
Anche lo Zen può cambiare, anzi lo ha già fatto
Dopo i tre ragazzi uccisi ad aprile a Monreale, Palermo piange Paolo Taormina, 21 anni. Un'ondata di violenza, dinanzi a cui la città chiede una maggior presenza dell'esercito. Davvero è la risposta che serve? E davvero il fatto che i colpevoli vengano dallo Zen ci autorizza a leggere questo quartiere solo con le lenti del cambiamento impossibile? «Cosa manca allo Zen? Avere altre visioni oltre il quartiere», dice Giusi Ferro, giovane educatrice dell'Albero della Vita. «La violenza che c'è in città è figlia di tutte quelle politiche sociali che sono mancate negli scorsi anni, una cosa che abbiamo sempre denunciato. È ingiusto ora chiedere alla maggioranza degli abitanti del quartiere, ancora una volta, di dimostrare di essere "altro"», afferma Fabrizio Arena, presidente Laboratorio Zen Insieme
Vogliamo l’esercito nelle strade e nei luoghi sensibili: è un coro unanime quello che si è levato a Palermo sin dalle ore immediatamente successive alla morte di Paolo Taormina, il 21enne ucciso da Gaetano Maranzano con un colpo di pistola in fronte per avere tentato di sedare una rissa. Si invoca la presenza delle forze di polizia, credendo che le armi possano essere la risposta a un malessere sociale diffuso, che non appartiene solo a determinati contesti sociali. Ma le armi non possono essere amiche, non possono fermare nulla e nessuno, anzi.
Lo dice chiaro una giovanissima ragazza, prendendo la parola durante la prima di una serie di fiaccolate che Palermo ha organizzato per gridare il proprio sdegno rispetto a quanto accaduto. «Io vorrei rivolgermi a chi crede che le armi possano aiutare a risolvere i problemi», tuona. «Vorrei che i miei coetanei capissero che non fa “figo” sparare per dimostrare di avere ragione. Ragione, in questa maniera, non se ne può avere. Parlate, usate le mente e, se non ci riuscite, provate altre strade perché, diversamente, a pagare saranno prima le famiglie delle vittime, poi anche voi. Ne vale veramente la pena?».
Gli omicidi che si stanno susseguendo in città fanno dire ad alta voce ai cittadini che non ci stanno più a questa ondata di violenza, a partire dalla vicenda di Monreale dello scorso aprile quando hanno perso la vita Massimo Pirozzo, Salvo Turdo e Andrea Miceli, i tre giovani uccisi a colpi di pistola per una banale lite, sino a quella di Paolo Taormina. Episodi accomunati da vite volate via senza un motivo e dal fatto che chi ha sparato venisse dallo Zen. Un intero quartiere che, dopo la vicenda di Monreale come dopo quest’ultima, si è chiuso in un doloroso silenzio, chiedendo rispetto ma soprattutto di essere compreso. Anche perché, negli anni, lo Zen di strada ne ha fatta tanta per togliersi di dosso la nomea di quartiere nel quale si nasce e si cresce con un dna speciale, con dei geni che non lascerebbero via di fuga, costringendo sin dalla tenera età a delinquere, spacciare, rubare, eseguire omicidi su commissione.
Così c’è chi nel territorio fa i conti con il dovere rimettere insieme i pezzi, ancora una volta, proteggendo quanti non hanno mai pensato di andare via, forti delle convinzioni che le cose possono migliorare, cambiare.
«Noi proviamo ogni giorno a fare la differenza», spiega Giusi Ferro, 27 anni, educatrice della Fondazione “L’albero della vita”, «ma certamente ci ritroviamo a dover dare delle risposte, anche se i nostri ragazzi sono piccoli, dai 6 ai 15 anni. È complicato spiegare perché si arriva a fare quel che è successo, io stessa non riesco a entrare nella testa di persone del genere. Uccidere a sangue freddo? Rimani spiazzato. Ci ho pensato in questi giorni e non ho trovato risposta».
Cosa manca allo Zen? Avere altre visioni oltre il quartiere. Io le vedo le potenzialità dei ragazzi che vivono qui e so bene che, dando loro attenzione, si può generare reale cambiamento
Giusi Ferro, 27 anni, educatrice
Partire da cosa manca ai ragazzi che vivono in quartieri periferici come lo Zen
«Uscire fuori dal quartiere, questo è ciò che manca. Avere altre visioni oltre il quartiere», prosegue Ferro, «perché questi ragazzi troppo spesso si focalizzano solamente all’interno del contesto in cui abitano, non hanno quello sguardo che va oltre e che fa loro capire che c’è dell’altro, che c’è un mondo fuori che può offrire loro delle opportunità. Noi come associazione facciamo attività quotidiana di ascolto, ma ogni anno organizziamo dei viaggi, facciamo gite, mostriamo ai nostri ragazzi altri panorami. Questo li aiuta a capire che possono avere una seconda, ma anche un terza scelta. Io ci credo, infatti ho deciso di venire a lavorare allo Zen, nonostante abiti a Capaci. Io le vedo le potenzialità dei ragazzi che vivono qui e so bene che, dando loro attenzione, ponendosi all’ascolto, come e quanto si possa generare reale cambiamento».

Raccontare il bello di un quartiere
«Quando diciamo che vogliamo raccontare il positivo di una realtà come questa, non mentiamo», spiega Fabrizio Arena, presidente dell’associazione “Laboratorio Zen Insieme”, che qui lavora da anni e sa bene che tipo di scosse subisce il quartiere quando la cronaca lo stigmatizza indicandolo come recettore e contenitore di ogni genere di malaffare. «Siamo consapevoli che esistono una serie di problematiche, che sono le ragioni per le quali siamo qui. Diversamente, non ci lavoreremmo. Però è chiaro, ora più che mai, che parli del quartiere quando parli del 95% delle brave persone che abitano qui, non il contrario. È assurda la narrazione in base alla quale quel 5%, che ovviamente si fa spazio e finisce sulle cronache per cronaca nera, arroganza, attività illecite, diventi la faccia del quartiere. Bisogna avere la capacità di guardare i fenomeni nella loro complessità».
La violenza che c’è in città – che non riguarda solo lo Zen e che in questo momento terrorizza la città – è figlia di tutte quelle politiche sociali che sono mancate negli scorsi anni, ma che noi abbiamo sempre denunciato
Fabrizio Arena, presidente Laboratorio Zen Insieme
Forse bisogna chiedersi in cosa si è sbagliato perché quella piccola percentuale diventasse il biglietto da visita dello Zen. «Magari non siamo stati abbastanza bravi a leggere i bisogni», si interroga Arena ,«ma, guardandomi indietro, mi rendo conto che non facciamo altro che dire, da molto prima dei fatti di Monreale, che mancano politiche di lungo corso, che manca una visione, che mancano servizi che sostengano davvero le famiglie, che mancano tutte quelle opportunità che diano alle persone la possibilità di autodeterminarsi. Necessita un cambio di paradigma radicale. Dobbiamo cominciare a metterci in testa che, se interveniamo, ora i frutti li raccoglieremo fra dieci anni. Perché la violenza che c’è in città – che non riguarda solo lo Zen e che in questo momento terrorizza la città – è figlia di tutte quelle politiche sociali che sono mancate negli scorsi anni, ma che noi abbiamo sempre denunciato. La richiesta di maggiore presenza da parte dello Stato, nei termini di forze armate, parla sicuramente di una rabbia che non possiamo derubricare a un fenomeno di pancia e, quindi, guardare dall’alto. Non si doveva, però, arrivare a questo punto. Io sono cresciuto con i mitra dell’esercito per le strade della città, ma allora lì era qualcosa di molto più forte, di molto più profondo. L’avremmo scoperto anni dopo che la mafia alzava la testa e creava un secondo Stato che combatteva lo Stato».
Nulla è affidato al caso
«È sicuramente una scelta lasciare che circolino tutte queste armi, che vadano in mano ai giovanissimi, che si destabilizzi la società, consentendo di rientrare in campo da paciere. Io non condivido la richiesta dell’esercito», prosegue il presidente del “Laboratorio Zen Insieme”, «ma capisco la rabbia delle persone. C’è evidentemente un disagio molto più profondo in questa città, per cui è chiaro che la gente vuole sicurezza e bisogna dargliela. Abbiamo avuto abbondanti dimostrazioni che di tutto ha bisogno lo Zen, meno che di eroi. E soprattutto è irrispettoso verso chi ci vive, in una condizione di deprivazione, di marginalità. Questo è un quartiere stremato, al quale tu chiedi un ulteriore sforzo per dimostrare che non sono tutti così. Non credo che sia giusto».
Di tutto ha bisogno lo Zen, meno che di eroi. Questo è un quartiere stremato, al quale tu chiedi un ulteriore sforzo per dimostrare che non sono tutti così. Non credo che sia giusto
Fabrizio Arena, presidente Laboratorio Zen Insieme
La città è l’accoglienza nei quartieri
«Esiste, al momento, uno scollamento tra quella che è la realtà dei nostri quartieri e quello che è il mainstream comunicativo all’esterno. Creare il benessere per tutti», sostiene Anna Staropoli, sociologa, testimone della nascita di tanti servizi allo Zen, negli anni in cui di grande sinergia tra pubblico e privato, «significa anche presentare una città diversa. Oggi il vero problema sta dietro alla parola affettività, dietro alla parola interiorità, ma c’è anche la socialità che non dovrebbe venire meno. Purtroppo, il senso di socialità lo stiamo perdendo, non riusciamo più a stare insieme. Sta diventando qualcosa d’élite, tra e di pochi. Attenzione, però, perché la socialità va anche educata. Le relazioni diventano costruttive quando c’è qualcuno che facilita questo processo. Qual è il rischio che si corre venendo meno tutto questo? L’individualismo, per cui ognuno se la costruisce a propria misura questa città. Il segreto, per riuscire a stare tutti quanti bene, è creare micro-comunità empatiche nelle quali ognuno possa ritrovare se stesso in connessione con l’altro».
La foto di apertura è stata fornita dalla Fondazione “L’albero della vita”
Si può usare la Carta docente per abbonarsi a VITA?
Certo che sì! Basta emettere un buono sulla piattaforma del ministero del valore dell’abbonamento che si intende acquistare (1 anno carta + digital a 80€ o 1 anno digital a 60€) e inviarci il codice del buono a abbonamenti@vita.it