Giustizia
Come sono pallidi nelle carceri italiane i diritti arcobaleno
Sono circa 70 le persone Lgbtqia+ presenti negli istituti di pena italiani e sei le sezioni riservate a donne trans. Valentina Calderone, garante dei detenuti di Roma: «Queste persone possono trovarsi in situazioni particolarmente vulnerabili, esposte a discriminazioni, violenze e mancanza di adeguate misure di protezione». E sottolinea che «l'esiguità dei numeri fa sì che vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività, è difficile organizzarle per un numero di persone così ristretto: si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l'isolamento»
Le persone Lgbtqia+ detenute nelle carceri italiane sono circa 70. «La loro condizione detentiva solleva importanti questioni legate alla tutela dei diritti umani e al rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. L’esiguità dei numeri fa sì che queste persone vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività per loro, è difficile organizzarle per un numero di persone così piccolo. Quindi si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento».
A parlare è Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale, che nella sua Relazione annuale sul 2024 ha dedicato un paragrafo proprio alla condizione detentiva delle persone Lgbtqia+.
Calderone, negli istituti di pena quante sono le persone Lgbtqia+?
Il ministero della Giustizia non pubblica i dati aggiornati delle persone Lgbtqia+ in carcere. Li possiamo trovare nel XXI Rapporto sulle condizioni di detenzione di Antigone, nel quale si afferma che ad ottobre 2023 erano 70 le persone detenute Lgbtqia+, quasi tutte in sezioni omogenee. Di queste, 64 erano in carceri maschili, all’interno delle sei sezioni esclusivamente riservate a donne trans (a Rebibbia nuovo complesso, Napoli Secondigliano, Como, Belluno, Reggio Emilia e Ivrea, Le restanti erano detenute in carceri diverse, dove non c’era una sezione ad hoc, ndr).

A volte però, come a Roma, abbiamo riscontrato delle situazioni in cui delle donne trans appena arrestate vengono portate a Regina Coeli e poste in isolamento perché si attesta un principio di protezione per cui delle donne non possono stare in sezione comune insieme agli uomini. La detenzione delle persone Lgbtqia+ è una condizione che riguarda un numero abbastanza esiguo di persone in tutta Italia, con delle difficoltà diverse.
Nella sua Relazione annuale 2024 lei scrive: «La condizione detentiva delle persone Lgbtiqa+ solleva importanti questioni legate alla tutela dei diritti umani e al rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale. Le persone Lgbtqia+ possono trovarsi in situazioni particolarmente vulnerabili all’interno degli istituti penitenziari, esposte a discriminazioni, violenze e mancanza di adeguate misure di protezione». Quali possono essere le difficoltà per queste persone, durante la detenzione?
Per esempio, per quanto riguarda l’accesso alle terapie ormonali per la transizione perché non tutte le regioni hanno gli stessi requisiti dal punto di vista dei Livelli essenziali di assistenza – Lea. Quindi, ci sono problemi dal punto di vista della continuità o anche, a volte, per intraprendere un percorso effettivo di transizione, con i farmaci. C’è un problema che scontano anche le donne che si trovano in sezioni all’interno degli istituti maschili, il fatto che l’esiguità dei numeri fa sì che queste persone vivano una condizione di maggiore separazione, spesso non ci sono molte attività, è difficile organizzarle per un numero di persone così piccolo. Quindi si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento. Nella maggior parte dei casi, quando parliamo di persone trans dentro le carceri, parliamo di donne trans, quindi di transizione “M to F” (da uomo a donna, ndr). Abbiamo pochissimi casi di transizione dal genere femminile al genere maschile.
È difficile organizzare le attività per un numero di persone così piccolo, così le persone Lgbtqia+ in carcere si ritrovano spesso a vivere una condizione di isolamento dentro l’isolamento
Valentina Calderone, Garante delle persone private della libertà personale di Roma capitale
Come avviene la collocazione in carcere?
La collocazione di queste donne passa non attraverso un criterio di autoidentificazione, cioè chiedendo loro in che genere si riconoscono e dove vogliono essere collocate, ma passa attraverso una disamina dei loro genitali: quindi un criterio esclusivamente biologico. Così ci sono donne trans che hanno effettuato un’operazione di riattribuzione delle caratteristiche sessuali che sono allocate all’interno di carceri maschili e donne trans che l’intervento di riattribuzione non lo hanno fatto e sono collocate all’interno di sezioni separate dentro le carceri maschili.
Le circa 70 donne che sono allocate in reparti nelle carceri maschili sono principalmente straniere, provenienti soprattutto da Paesi dell’America Latina, con tutta una serie di problemi aggiuntivi che riguardano i permessi di soggiorno, la possibilità dei percorsi di fuoriuscita. Tutte le questioni complicate che riguardano la popolazione detenuta, nei casi in cui noi ci troviamo ad affrontare situazioni di persone che vivono anche una discriminazione multipla, hanno poi, soprattutto nei percorsi di uscita, molte più difficoltà ad avere accesso a servizi, a poter avere una continuità nei percorsi che magari hanno intrapreso all’interno.
Nella sua Relazione lei afferma: «È essenziale che le istituzioni penitenziarie adottino politiche e protocolli specifici per garantire il rispetto dell’identità di genere e dell’orientamento sessuale delle persone detenute, assicurando loro un ambiente sicuro e rispettoso dei loro diritti fondamentali».
Ci sono stati dei tavoli all’interno degli Stati generali dell’esecuzione penale, nel 2017, con un gruppo di lavoro che ha affrontato la questione delle persone trans. È chiaro che, da una parte, si ha una questione sanitaria che dovrebbe coinvolgere le regioni, dall’altra, si potrebbe lavorare sui percorsi di accoglienza, su una serie di questioni che riguardano i vissuti violenti che spesso queste donne hanno subito nel corso della vita. Infatti, le persone Lgbtqia+ detenute, nella maggior parte dei casi, provengono da percorsi di violenza nel corso della vita.
Per le donne omosessuali, non viene prevista dall’Amministrazione penitenziaria una necessità di isolamento dalle altre, una protezione, mentre per gli uomini omosessuali sì. Per essere allocato, nelle carceri, in sezioni per omosessuali devi autodichiararti, quindi devi decidere di manifestare il tuo orientamento. A fine luglio 2025 erano 88 gli uomini omosessuali all’interno delle sezioni protette, numero che ovviamente non è rispondente alla realtà di tutti gli uomini omosessuali che sono dentro gli istituti. Si nasconde il proprio orientamento per paura di essere isolati e per timore di discriminazioni e violenza.
Cosa si può dire per quanto riguarda le difficoltà pratiche, inerenti il percorso di transizione?
Le persone che devono andare all’esterno a fare visite hanno gli stessi problemi che hanno tutte le persone detenute, cioè la mancanza della scorta. Spesso saltano visite e controlli per mancanza di agenti della Polizia penitenziaria. Poi a seconda di come sono le previsioni delle varie regioni rispetto alla sanità e a che cosa è prescritto nei Lea, ci possono avere vari tipi di accesso alle terapie ormonali, quindi rispetto a quella parte di percorso, che può essere di attivazione perché era un percorso appena iniziato o perché era stato iniziato in un’altra nazione, quindi da rifare per la nostra legge. Oppure perché era un percorso informale, in cui i farmaci erano assunti, anche da molto tempo ma senza essere seguite effettivamente dal Servizio sanitario nazionale. Ci sono tante situazioni diverse che riguardano la salute di queste persone e la volontà di intraprendere o di continuare un percorso di transizione.
Nel corso del 2024, nel reparto G8 di Rebibbia nuovo complesso sono entrate 32 detenute transgender, alla data del 31 dicembre 2024 c’erano 21 donne presenti. È stato segnalato un solo ingresso nel carcere di Regina Coeli, e lei a questa storia dedica un approfondimento, nella sua Relazione. Ce ne vuole parlare?
Sì, Veronica (nome di fantasia) è entrata in carcere nell’agosto 2024, a me non è stata segnalata. Noi abbiamo scoperto dopo mesi, per caso, che c’era questa ragazza molto giovane all’interno della settima sezione di Regina Coeli. Abbiamo fatto un colloquio con lei, dal quale è emerso che fossero manifesti degli indicatori di tratta. Non siamo attrezzati a fare un lavoro specifico in questo tipo di situazioni, abbiamo coinvolto un ente nel Terzo settore, la cooperativa Be Free, due operatrici hanno iniziato un percorso con lei in carcere. Veronica era in custodia cautelare, era in una sezione chiusa, una cella con una persona omosessuale, anch’essa protetta. Quindi, non era completamente da sola, però era in una sezione chiusa.

È stata avviata la proposta di detenzione domiciliare che ha avuto esito positivo, con l’individuazione di un posto che è stata una delle case di accoglienza per persone detenute del Comune di Roma. C’è stata la concessione dei domiciliari in attesa di giudizio ed è stato importante il contatto con un ente del Terzo settore, in questo caso, perché si deve procedere a una richiesta di protezione internazionale in un caso del genere. Si tratta di una persona che, se è rimpatriata, rischia rispetto alla propria condizione e a quello che ha subito nel suo Paese. L’individuazione di questa ragazza è arrivata abbastanza in ritardo, non era stata segnalata e si erano persi un po’ di passaggi. Però quando la rete si è messa a lavorare su questo, i risultati ci sono stati.
Foto di apertura di Lawrence Krowdeed su Unsplash e, nell’articolo, foto fornita dall’intervistata
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