Lavoro sociale
Ecass: la cooperativa che fa inclusione “insegnando” l’autonomia alle persone fragili
Uno degli ultimi arrivati presso l’appartamento alla Magliana è una ragazzo con disabilità che ha perso la mamma e ha il papà con gravi problemi di salute. Sono in tutto 12 le persone che vivono nelle due microstrutture residenziali che la cooperativa gestisce dal 1980. «Chi viene, sa che dovrà andare via. Noi insegniamo a camminare sulle loro gambe», spiega Massimo Sala, uno dei fondatori
Stefano ha quasi 40 anni e fino a poco tempo fa dormiva insieme al papà. Oggi vive in una piccola comunità, in un appartamento all’interno di un condominio nel quartiere Magliana di Roma. «Quando lo riaccompagno mi dice: “Papà non ti preoccupare, torno». E questo mi rende felice. Ora so che quando non ci sarò più, accanto a lui resteranno persone che sanno occuparsi di lui e arricchire le sue capacità».
Stefano ha perso la mamma all’improvviso. Recentemente, al papà è stato diagnosticato un cancro. Stefano è uno dei dodici abitanti delle due strutture – o meglio, micro strutture – residenziali gestite a Roma dalla cooperativa Ecass.
Nessuno di loro starà qui per sempre. L’obiettivo è accompagnare queste persone verso l’autonomia, nella misura e nelle forme più congeniali a ciascuno
Massimo Sala, cooperativa Ecass
La storia di questa realtà, inizia 45 anni fa. Ecass aderisce a Legacoop ed è considerata un modello, un esempio di ciò che una cooperativa può e deve offrire al proprio territorio. E proprio il legame con il territorio, con il quartiere, è uno degli elementi di forza della cooperativa e una delle principali risorse per chi usufruisce dei suoi servizi, residenziali e non: tutte persone con disabilità mentali e relazionali, che vengono accompagnate nella consapevolezza, il rafforzamento e l’accrescimento delle proprie capacità e possibilità. «Nessuno di loro starà qui per sempre. L’obiettivo è accompagnare queste persone verso l’autonomia, nella misura e nelle forme più congeniali a ciascuno»: chi parla è Massimo Sala, uno dei fondatori di questa cooperativa storica.
Ed è proprio dalla storia che bisogna capire, per comprendere il senso e il valore di questa realtà, al di là dell’erogazione di servizi.
Una storia lunga quasi 45 anni
Tecnicamente, oggi Ecass è un centro di riabilitazione territoriale “ex articolo 26”, che gestisce due strutture residenziali (ciascuna con sei posti) da 45 anni, nel quartiere romano della Magliana. A queste si sono aggiunte, circa 35 anni fa, tre strutture semiresidenziali, nella stessa zona. Infine, 30 anni fa, il servizio di assistenza domiciliare, che oggi raggiunge circa 50 persone, sempre sul territorio.

Tutto è iniziato nel 1980, quando la cooperativa è nata, «sull’onda dell’entusiasmo e degli ideali suscitati dalle riforme di quegli anni: quella del servizio sanitario e la legge Basaglia. Eravamo nove giovani studenti, per lo più di quella che allora si chiamava Scuola diretta a fini speciali per educatori di comunità dell’Università di Roma», racconta Sala. «Venimmo a sapere che l’Enaip (Ente Nazionale Acli Istruzione Professionale) voleva lasciare le strutture in cui aveva avviato delle comunità alloggio con alcuni frequentatori del centro di formazione professionale per persone con disabilità aperto a Magliana. Entrammo in contatto con loro, formammo la cooperativa e prendemmo in gestione le strutture, che sono quelle in cui tuttora si trovano i due appartamenti residenziali. Uno lo abbiamo comprato, per l’altro paghiamo l’affitto da allora».
Era l’epoca dei grandi ideali e furono soprattutto questi a rendere possibile un’impresa che, almeno all’inizio, era tutt’altro che redditizia. Ottenere la convenzione, infatti, non fu facile né breve. «Ci vollero tre anni di lotte e manifestazioni, arrivammo anche a piantare le tende a piazza Venezia, finché finalmente nel 1983 la convenzione arrivò e rientrammo delle spese che fino a quel momento erano state tutte a nostro carico», ricorda Sala.
Da allora l’attività della cooperativa ha attraversato diverse stagioni, fino a quella attuale, tutt’altro che facile, «vista soprattutto la gran mole di attività burocratica richiesta per quello che oggi si chiama accreditamento. E che per strutture piccole come la nostra è assolutamente sproporzionata e penalizzante».
Gli ideali però restano alti e sono gli stessi di allora: «Fin dall’inizio, abbiamo sempre potuto contare su professionalità specializzate di altissimo livello: per esempio, tra i soci avevamo uno dei nostro professori, un medico neuropsichiatra allievo di Bollea, che ha dato l’imprinting al nostro lavoro e alla nostra visione della riabilitazione», spiega Sala.
Ma su cosa si basa questa visione e questo approccio alla disabilità e alla riabilitazione? Innanzitutto, dicevamo, il territorio. «Il legame con il quartiere fa parte del nostro progetto riabilitativo: noi valorizziamo tutte le risorse del territorio e coltiviamo la relazione con chi lo abita. E il quartiere, devo dire, ha sempre risposto in modo molto positivo. Le nostre due microstrutture si trovano all’interno di un condominio e non abbiamo avuto mai problemi, anzi: abbiamo sempre ricevuto un’ottima accoglienza e tutto il sostegno possibile dagli abitanti del palazzo. Abbiamo fatto parte per molti anni anche del Comitato di quartiere, a cui peraltro offriamo un nostro spazio per le sue attività: cerchiamo insomma di restituire al quartiere una parte di quello che il quartiere ci dà».

Il secondo punto fondamentale è quello che accennavamo all’inizio: «Chi viene da noi sa che dovrà andare via. Poi alcuni restano per molto tempo, perché non si trova una possibilità d’inserimento lavorativo o abitativo, ma lo scopo è portare fuori le persone che entrano: prendere in carico, per lavorare sulle autonomie e insegnare quindi a camminare con le proprie gambe. C’è chi, dopo essere stato qui, va in un’altra struttura, chi torna in famiglia, chi inizia un progetto di autonomia abitativa con assistenza domiciliare. Ancora, c’è chi si sposa e diventa genitore…Possiamo dire che il nostro obiettivo è che i nostri utenti diventino, un giorno, contribuenti», spiega Sala.
Una storia, tante storie
In quasi mezzo secolo di storia, la cooperativa ne ha viste passare, di persone e di vissuti, stagioni buone e altre meno buone. «Soprattutto nei primi anni, siamo riusciti ad avere dei grandi risultati: abbiamo realizzato tanti inserimenti lavorativi e anche abitativi. In una casa a Tor Bella Monaca, per esempio, sono andati a vivere insieme tre ragazzi che avevamo accolto e che qui da noi hanno costruito e rafforzato le loro autonomie. Oggi i tempi sono per molti aspetti peggiori di allora l’inserimento lavorativo è sempre più complesso e la burocrazia ci soffoca, soprattutto viste le nostre ridotte dimensioni. A un certo punto, sembrava che dovessimo avere la camera mortuaria (come le regole per l’accreditamento richiedono alle grandi strutture, ndr)! Sono sicuro che se ci mettessero a disposizione un posto di lavoro l’anno e un’abitazione l’anno, noi potremmo dimettere due persone l’anno!», afferma Sala.
Le storie belle, comunque, oggi come allora, non mancano. Come quella di Stefano, appunto, che a quasi 40 anni ha trovato qui la possibilità di fare quel salto in avanti che forse non avrebbe fatto, se fosse rimasto a casa. «Il papà lo segue molto, nonostante la malattia. È molto sollevato da quando il figlio è qui con noi, perché sa che non resterà solo, quando lui non ci sarà più. Ma non è soltanto questo: ciò che gli dà sollievo è vederlo crescere, iniziare a camminare sulle sue gambe, acquistare fiducia in se stesso e, con questa, la speranza nel futuro. Oggi il padre dice che gli abbiamo salvato la vita: sa che il figlio non resterò mai solo ma, al tempo stesso, vede che impara ogni giorno a fare da solo».
Credit foto: cooperativa Ecass
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