Idee Società

La disabilità non ha bisogno di zucchero, ha bisogno di verità

Quando la parola “disabilità” entra in gioco, scatta un riflesso condizionato: tutto diventa automaticamente bello, buono, giusto. Ma questo racconto zuccherato è una trappola. Non serve alle persone con disabilità, serve a chi applaude: per sentirsi buono, moderno, inclusivo

di Giovanni Ferrero

Ogni volta che la parola “disabilità” entra in gioco, scatta un riflesso condizionato: tutto diventa automaticamente bello, buono, giusto. Un ristorante con camerieri disabili? “Che emozione, che gesto nobile”. Una persona in carrozzina che parte per un’avventura estrema? “Che forza, che esempio per tutti”. Un ragazzo con disabilità che apre un’attività? “Che meraviglia, che coraggio”. E basta. Perché non è sempre così. Questo racconto zuccherato è una trappola. Non serve alle persone con disabilità, serve a chi applaude: per sentirsi buono, moderno, inclusivo. È ipocrisia mascherata da ammirazione. Perché se tutto quello che tocca la disabilità diventa favola edificante, allora non stiamo parlando di inclusione: stiamo mettendo zucchero sopra la realtà.

La verità è molto più semplice e molto meno comoda: le persone con disabilità non sono eroi, santi o mascotte. Possono essere competenti e generose, ma anche arroganti, antipatiche, sgradevoli. Esattamente come chiunque altro. Eppure quando lo dico ai convegni vedo sguardi scandalizzati, come se avessi bestemmiato. Perché la società preferisce la persona con disabilità sempre sorridente, resiliente, ispirante. In altre parole: innocua. E poi ci sono gli episodi quotidiani che fanno sorridere amaramente. Conoscenti che ti segnalano un “ragazzo disabile bravissimo, che sta facendo cose incredibili” e che quindi bisogna aiutare a tutti i costi. Oppure l’ennesimo personaggio che devo per forza incontrare come direttore della Cpd-Consulta per le persone in difficoltà, non perché abbia realizzato davvero qualcosa di grande, ma solo perché la sua start up “ha a che fare con la disabilità”. Vai a vedere, e scopri che è un’operazione inconsistente, una scatola vuota ben confezionata, che però ottiene articoli sui giornali, like sui social e pacche sulle spalle. Perché? Perché è sulla disabilità, e quindi dev’essere per forza bello, buono e giusto.

Lo stesso vale per altri esempi che riempiono giornali e bacheche social. Un ristorante con personale con disabilità che chiude? Subito parte la mobilitazione: “Aiutiamolo a sopravvivere”. Ma se fosse un normale ristorante senza successo, diremmo che è la legge del mercato: non tutti possono fare gli imprenditori, e non basta la buona volontà per restare aperti. Clienti che prenotano in una trattoria con camerieri Down e poi non si presentano? Diventa “un affronto alla disabilità”, con titoli e indignazione generale.

Ma succede ogni giorno a migliaia di ristoranti. La soluzione è chiedere un acconto, non indignarsi perché “poverini sono disabili”. Uno studente cieco che si laurea? Festa del paese, sindaco commosso, articoli sui giornali. Ma quante persone si laureano ogni anno senza che nessuno le celebri? Perché la normalità, se associata alla disabilità, deve trasformarsi per forza in eccezione?

E qui arriva la parte più inquietante: non sono solo i cittadini comuni a cadere in questa retorica, ma anche chi ha un ruolo istituzionale e di responsabilità. Oggi per un’inaugurazione non si cerca più il bambino per il taglio del nastro: si cerca la persona con disabilità, meglio se con la sindrome di Down, perché “fa più effetto” nella foto. Una notizia qualsiasi diventa improvvisamente rilevante solo perché c’è dentro la parola “disabilità”. Se una persona con disabilità decide di fare qualche chilometro in bici, ecco che politici e amministratori si affrettano a rilanciare la notizia sui social, trasformandola in un’impresa epica, degna di un’olimpiade. E subito arrivano complimenti smisurati, anche su aspetti della sua vita che nessuno conosce, come se il semplice fatto di avere una disabilità fosse di per sé un lasciapassare per l’ammirazione incondizionata.

E non possiamo ignorare un altro elemento scomodo: spesso dietro a questi “trofei” ci sono anche i genitori stessi. Genitori che, invece di pretendere opportunità reali per i propri figli, finiscono – magari inconsapevolmente – per accettare che vengano esibiti come simboli. Non di rado, la gratificazione arriva non tanto da ciò che il figlio ha realizzato, ma dal fatto che sia “in vetrina” perché disabile. Comprensibile, se si considera la fatica e la solitudine di tante famiglie, ma il rischio è che si trasformi in un circo che usa i figli più che proteggerli.

Questo meccanismo di applauso automatico crea un altro effetto collaterale: abbassa le aspettative. Se un ristorante con personale con disabilità deve essere sostenuto a prescindere dalla qualità del cibo o dalla capacità gestionale, non si sta facendo inclusione: si sta facendo carità mascherata. Se una persona con disabilità che percorre l’Italia con il suo ausilio viene celebrata a priori, senza considerare la reale prestazione, si manda un messaggio distorto: “ti applaudiamo non perché sei bravo, ma perché sei disabile”. Se una start up viene lodata senza valutare il prodotto, solo perché fondata da persone con disabilità, non è un segno di fiducia: è un accontentarsi. E l’accontentarsi, alla lunga, fa più male che bene, perché mantiene basse le aspettative e toglie valore al merito autentico.

Il risultato è una narrazione tossica: una società che applaude a comando, che invita “il disabile” al taglio del nastro o alla conferenza solo per farsi bella, senza chiedersi se quella persona è lì per le competenze o solo per la condizione. E allora basta favole: non tutto ciò che riguarda la disabilità è bello, buono e giusto. Spesso è normale, a volte mediocre, altre volte pessimo. Proprio come tutto ciò che riguarda gli esseri umani. La disabilità non ha bisogno di zucchero: ha bisogno di verità.

Foto di Myriam Zilles su Unsplash

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