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La raccolta fondi del non profit italiano? Ancora troppo arretrata

La presidente dell'Associazione italiana fundraiser, Michela Gaffo, commenta i dati rilasciati dall'Istat sulle entrate delle istituzioni non profit derivanti da attività di raccolta fondi: «Corporate fundraising, lasciti testamentari, crowdfunding: le attività che ragionano su un orizzonte temporale a medio-lungo termine e che richiedono un investimento costante sulle relazioni e il loro sviluppo strategico sono presenti in modo ancora troppo limitato. La competenza tecnica di fundraising è ancora troppo bassa e questo frena la crescita del non profit»

di Michela Gaffo

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I dati Istat relativi al Censimento del 2021 sulle dimensioni economiche del Terzo Settore disegnano un panorama in chiaroscuro. L’universo delle oltre 360mila organizzazioni censite mostra un volume di entrate totali in quell’anno pari a quasi 93 miliardi di euro, con un balzo del 32% rispetto al 2015. Un segnale – se mai ci fosse bisogno di una conferma – del ruolo centrale anche a livello economico del Terzo settore nel contesto nazionale.

Se tuttavia ci soffermiamo a guardare i dati di dettaglio che riguardano la raccolta fondi, la prospettiva cambia drasticamente: da essa infatti arrivano 5,2 miliardi di euro di entrate. Il dato più critico è la sua scarsa diffusione: solo il 17% delle organizzazioni dichiara di fare fundraising, in netto calo rispetto al 21% registrato nel 2015. Questo arretramento è una spia accesa: significa che una vasta maggioranza di enti non ha ancora integrato la raccolta fondi come funzione strategica e vitale.

Diverse forme giuridiche, pesi diversi

Da un rapido sguardo alla composizione delle entrate, si nota il differente peso all’interno dell’analisi delle diverse forme giuridiche, che delineano modelli di sostenibilità molto differenti. Le associazioni rappresentano la schiacciante maggioranza numerica (85% del totale), ma appaiono le più fragili” in termini di dimensione economica: solo il 5% di esse supera la soglia dei 250mila euro di entrate (la media complessiva è pari al 9%). Se guardiamo all’universo delle cooperative sociali (che sono il 4% del totale), queste si rivelano decisamente più “pesanti”: la soglia dei 250mila euro viene superata dal 53% di questa tipologia di enti, grazie a una vocazione intrinseca all’attività di impresa (89% delle entrate derivanti da attività market, contro il 24% dichiarato dalle associazioni).

Questo ci aiuta a decifrare meglio il peso delle voci relative alla tipologia delle entrate complessive, in cui la voce più pesante (28%) è quella relativa ai “contributi annui aderenti, comprese quote sociali e contributi del fondatore” (e qui vediamo il peso delle quote sociali dato dal volume delle associazioni, dove la quota associativa è fonte primaria di sostentamento), seguita dai “proventi/entrate derivanti dalla vendita di beni e servizi” (22%), che riflette il peso economico delle attività market espresse dal mondo cooperativo. 

Non abbiamo il dato di quante organizzazioni fanno raccolta fondi suddiviso per forma giuridica, ma sembra di poter dedurre che sia in capo prevalentemente alle associazioni, più “deboli” delle altre in termini di classe di entrate.

Il fundraising tra tradizione, Covid e digital divide

Le tipologie di raccolta fondi più diffuse mostrano un legame con la tradizione e una forte vulnerabilità. Le forme più utilizzate sono legate al contatto fisico e diretto: al primo posto troviamo la vendita di beni e servizi legata alla raccolta fondi (dichiarata dal 40% delle organizzazioni, ma che rappresenta solo il 21% del valore economico totale della raccolta fondi), al secondo posto ci sono gli eventi (38%), al terzo il contatto diretto (34%). In generale sappiamo che queste sono state le forme di raccolta che hanno subito l’arresto più duro nel periodo del Covid, e che hanno avuto poi maggiore difficoltà a ripartire nel 2021, soprattutto nelle realtà meno strutturate. Quello è tuttavia l’anno della rilevazione.

Altri dati rappresentano un campanello d’allarme e denotano un importante vuoto strategico:

  • solo il 22% delle organizzazioni usa il web per raccogliere fondi;
  • appena il 7% utilizza il crowdfunding, una forma che, per le associazioni radicate sul territorio e con una community attiva, dovrebbe essere un pilastro;
  • il 3% fa corporate fundraising;
  • fanalino di coda sono i lasciti testamentari, che si fermano all’1%.

Le attività di raccolta fondi che ragionano su un orizzonte temporale a medio-lungo termine, e che richiedono un investimento costante sulle relazioni e il loro sviluppo strategico sono presenti in modo ancora troppo limitato. L’orizzonte di pianificazione della maggior parte degli enti impedisce così la creazione di flussi di entrata stabili e significativi. Questi numeri rivelano poi un livello di competenza tecnica di fundraising e tecnologica ancora troppo bassa, che ne arresta la crescita.

Uno sguardo alle uscite: dove vanno gli investimenti?

Sempre da questa fotografia prodotta da Istat, emerge che le uscite complessive del settore sono cresciute in linea con le entrate, toccando quasi 84 miliardi di euro (+36% sul 2015). Le voci di spesa principali che possiamo leggere sono gli acquisti di beni e servizi e gli oneri e spese per i dipendenti.

È interessante chiedersi: da cosa è composta questa spesa, cosa ci sta dentro? Si tratta invero di un quesito cruciale. Il futuro sviluppo delle organizzazioni e la loro sostenibilità economica si giocano sulla capacità di destinare risorse non solo alla missione ma anche alla crescita organizzativa e strategica, allo sviluppo delle competenze e al fundraising professionale. Se questo cambio di paradigma non si verifica, il Terzo settore rischia di frenare il suo potenziale, consapevole che il suo impatto sulla società potrebbe essere ancora maggiore e duraturo. E in questo momento storico, ne abbiamo un gran bisogno.

Michela Gaffo è presidente di Assif. In apertura, foto di Akshay Chauhan su Unsplash

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