Idee Attivismo
Le guerre di oggi: chi ci ha capito qualcosa e chi no
Delle guerre di oggi, e ancora più di pace, non ha capito niente Giorgia Meloni quando dice che scendere in piazza non serve. Non ci hanno capito nulla quei giornali che hanno contrapposto la Global Sumud Flotilla agli attivisti del Mean. Non ci hanno capito nulla quelli che non hanno detto una sola parola contro il massacro del 7 ottobre. C’è una via mediana, tra le polarizzazioni che ci gettano nelle trincee digitali: quella della ragionevolezza, delle persone che sentono il desiderio di fare qualcosa pur di non lasciare che l’ingiustizia diventi abitudine
Ci ha capito qualcosa – di guerre varie sparse per il mondo – lo scrittore Luca Doninelli. All’indomani del rientro di 110 attivisti italiani dal Giubileo della Speranza in Ucraina organizzato dal Mean (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) – attivisti che, sulla strada del ritorno, erano rimasti bloccati su un treno nella stazione di Leopoli mentre sulla città piovevano droni, bombe a grappolo e missili russi – Doninelli ha scritto: «Certamente, il caso di Leopoli porta in primo piano l’attività di un gruppo di persone non meno eroico di coloro che si sono imbarcati nella Global Sumud Flotilla, con la stessa finalità ma, diciamo così, con un altro stile. Lo dico perché un bene prezioso della nostra Europa sta proprio nella convivenza creativa e vivida di diverse radici culturali, che senza negare le differenze hanno cercato di porre, insieme, le basi del bene comune. Flotilla e Mean sono la testimonianza della forza antica, plurale e in parte sepolta, di una cultura che oggi rischia la dimenticanza, anche da parte di chi dovrebbe averla a cuore. Il Mean, nato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai cercato di far parlare di sé: non di noi, dicono i suoi membri, ma di coloro che restano e soffrono. Una scelta precisa, perché dettata dalla necessità di non alimentare un odio (quello degli ucraini verso i russi) già alle stelle, ma di portare un conforto, non solo materiale, a gente che non vive soltanto a Kyiv o a Kharkiv ma in villaggi mai raggiunti dai mezzi d’informazione, dove la guerra crea non solo morte ma anche solitudine e perdita di senso». (Su Avvenire del 7 ottobre).
Chi non ha ancora capito
Non ci hanno capito nulla quei giornali che, sempre all’indomani del rientro dei 110 italiani dall’Ucraina, sono usciti con titoli strampalati di questo tipo: “La Flottiglia per cui non si indigna nessuno”, “La vera Flottiglia è quella del Mean”, e via degenerando. Non risulta che quegli stessi giornali abbiano riservato, all’iniziativa, uno spazio di informazione adeguato prima che il Giubileo della Speranza in Ucraina avesse inizio. A parlare dopo, a usare una notizia in modo vagamente manipolatorio per soddisfare la propria platea di lettori, sono capaci tutti. Ma a questo, purtroppo, si sono ridotti tanti giornali: a rincorrere il proprio pubblico a discapito della verità. È uno degli effetti più nocivi della rivoluzione digitale e della conseguente bulimia informativa. È anche un paradosso. Sono i media che più si dichiarano indipendenti dai “poteri forti” a soggiacere a un’altra forma di potere, più ricattatoria ancora: quella del proprio pubblico, che vuole confermati i pregiudizi, le teorie di fondo, o il modo rassicurante (e giustificatorio del proprio disimpegno) con cui si divide il mondo in buoni e cattivi.
La Presidente del Consiglio
Mostra di averci capito davvero poco Giorgia Meloni. Urla, sbraita, fa gli occhi a palla, appena si ritrova un microfono davanti. Ecco la profondità del Meloni pensiero: «Perché la pace non si fa con le bandiere! Scendendo in piazza! Mettendo in atto iniziative velleitarie e irresponsabili! Che sotto sotto hanno l’unico scopo di mettere in imbarazzo il mio governo! La pace si fa sedendosi ai tavoli!». Quali tavoli? Quelli dei potenti. Sbaglia, signora Meloni. Sbaglia profondamente. La pace si costruisce dal basso. Nasce nei cuori. E si fa anche con le bandiere. Inizia nel riconoscimento dell’altro come amico, al di qua di qualsiasi differenza. Io credo che lei sia imprigionata in qualcosa che è, allo stesso tempo, più grande di lei e più piccolo di lei. Più grande di lei perché il suo contributo – per esempio alla pace/tregua di Gaza – andrebbe rubricato nella categoria del risibile. E quanto a quello per l’Ucraina, siamo sicuri che il suo atteggiamento nei confronti di Kyiv non sarebbe più vicino a quello di Salvini, se lei sedesse sui banchi dell’opposizione e non fosse obbligata a mantenere buoni rapporti con Bruxelles?
Ma lei è anche imprigionata in qualcosa che è più piccolo di lei. Non è questo che desidera un cuore umano. Non è sedere al tavolo dei potenti che rende felici e la vita degna di essere vissuta. Non è questo. Non lo è per nessuno e non lo è neanche per lei. Su quel palco a sbraitare contro chi è sceso in piazza con la bandiera della Palestina, lei, signora Meloni, è meno felice del signore di ottantasei anni che è andato fino a Kharkiv per celebrare il Giubileo della Speranza e di quell’altro ultraottantenne che si è imbarcato con la Global Sumud Flotilla. E poi, mi perdoni, mi lasci dire ancora una cosa. Lei non ha detto una sola parola sul massacro dei civili palestinesi, fino a quando non è stata toccata la parrocchia cattolica di Gaza di padre Romanelli. E anche lì, non è che si sia sprecata tanto. Forse sarebbe meglio continuare a tacere.
Chi punta il dito
Non ci hanno capito nulla, naturalmente, gli amici più o meno dichiarati di Hamas. Non parlo di Odifreddi, ma di quelli che ancora non riescono, mentre solidarizzano con la Palestina, a indignarsi allo stesso modo per le vittime civili in Ucraina. Quelli che fanno i distinguo tra l’83% di civili uccisi a Gaza e il 95% di civili uccisi a Mariupol (fonte: The Guardian). Quelli che non hanno detto una sola parola contro il massacro e gli stupri del 7 ottobre. Quelli per cui degli ostaggi in mano ad Hamas non si doveva parlare. No, non c’hanno capito nulla nemmeno loro, di cosa ha mosso le persone di mezzo mondo a scendere in piazza e i più decisi e coraggiosi tra loro a imbarcarsi con la Global Sumud Flotilla o a prendere un treno, con il Mean, per Kharkiv. Che ci siano differenze di stile, di opinioni, di cultura e anche di preferenza politica, tra tanti attivisti di Global Sumud Flotilla e tanti attivisti del Mean, è palese. Ma oggi questo non conta. Ha poco valore. Perché ha ragione Doninelli: «Il bene prezioso della nostra Europa sta proprio nella convivenza creativa e vivida di diverse radici culturali, che senza negare le differenze hanno cercato di porre, insieme, le basi del bene comune». Di fronte al massacro degli inermi, la differenza ideologica, le appartenenze… forse è il caso di farle passare in secondo piano. Per carità, non dimentichiamole. Non sottovalutiamole. Non omologhiamoci gli uni agli altri. Non sia mai! Ma vogliamo stare qui – invece di muoverci, di attivarci, di mobilitarci fosse anche solo per dire una preghiera, dimenticandoci per un momento le piccolezze quotidiane – a distribuire patenti di pacifismo buono e pacifismo cattivo? Chi ha puntato il dito contro la Global Sumud Flotilla soffre delle stesse patologie ideologiche che accusa. Proprio come chi punta il dito contro il Mean e contro le altre numerose iniziative di solidarietà per l’Ucraina che sono nate, spontaneamente e dal basso, dopo l’invasione russa (tra queste vorrei ricordare almeno Giuditta Rescue Team, le associazioni Eucraina e Amicizia Italia Ucraina).
La via mediana
Ci ha capito tanto Elia Carrai che, commentando le manifestazioni pro Palestina, ha scritto sull’Osservatore Romano un articolo intitolato “Perché è sbagliato guardare solo agli episodi di violenza”, nel quale dice: «Al netto della chiara condanna dei gruppuscoli di violenti, ciò su cui vale la pena soffermarsi è, piuttosto, la grande massa di liceali e ragazzi che si è riversata nelle strade per chiedere che cessi la carneficina di Gaza. Non mi interessa il grado di consapevolezza che li ha animati, né mi interessa pesare in termini utilitaristici il loro protestare. A farmi riflettere è come questi giovani, riversandosi pacificamente in piazze e strade, abbiano tentato di prendere sul serio un bisogno di giustizia e di pace che sentono proprio».
Ci ha capito tanto Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, che sullo stesso tema ha detto: «Il meccanismo che ha generato questa partecipazione è extrasindacale, extrapolitico, potrei dire extrapartitico, non un movimento di classe, di interessi, di contrasti, neppure di conflitto. Il conflitto viene come passaggio successivo o strumentalizzato da qualcuno che sta in piazza con loro».
E ci ha capito tanto il cardinal Pizzaballa, che al Festival di Open ha detto: «La coscienza dei popoli, dei movimenti, dell’opinione pubblica è viva. È lì che dobbiamo ricominciare: ricostruire un tessuto nel territorio, creare alleanze dentro la società civile che tengano viva l’umanità. Io religiosamente chiamo questo periodo “la notte”: sono tempi duri, ma la notte poi finirà».
C’è una via mediana, tra le polarizzazioni che ci gettano nelle trincee digitali, l’un l’altro di tastiera armati, a farci una guerra senza spargimento di sangue ma con grande vilipendio dello spirito e con una violenza che è l’anima stessa di quella violenza che poi sfocia in guerra vera. La via mediana è la via della ragionevolezza, delle persone che sentono il desiderio di fare qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non rimanere a guardare, pur di non lasciare che l’ingiustizia diventi norma, abitudine. «C’è qualcosa di peggio dell’avere un’anima addirittura perversa. È avere un’anima abituata», scriveva Charles Péguy. Noi non ci vogliamo abituare.
In apertura una foto degli attivisti del Mean/Piero Vitti
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