Idee Usa & Europa

Perché il memorandum di Trump contro gli “antifa” è una sfida alla filantropia

Quale reazione devono mettere in campo le fondazioni di fronte a un memorandum della amministrazione americana che mira a silenziare le istanze "politiche" degli enti filantropici? La neutralità è ancora un'opzione?

di Federico Mento

L’amministrazione Trump qualche giorno fa ha pubblicato il memorandum “Contro il terrorismo interno e la violenza politica organizzata”. A partire dall’omicidio di Charlie Kirk, la galassia Maga ha avviato una pervasiva campagna per instillare nella società statunitense – e non solo guardando all’eco arrivata sino a noi – l’idea che vi sia un considerevole incremento della violenza politica e che queste azioni non siano affatto isolate, piuttosto l’esito “di campagne sofisticate e organizzate di intimidazione, radicalizzazione, minacce e violenza volte a silenziare il discorso oppositivo, limitare l’attività politica, indirizzare esiti politici e ostacolare il funzionamento della società democratica”.

Secondo il memorandum, le responsabilità della recrudescenza della violenza politica vanno ricercate nei movimenti “antifa”, che “dipingono principi fondamentali americani (es. sostegno alle forze dell’ordine e al controllo delle frontiere) come “fascisti” per giustificare azioni rivoluzionarie violente.. fili conduttori comuni in queste pratiche includono l’anti-americanismo, l’anticapitalismo, l’anti-cristianesimo; il sostegno al rovesciamento del governo statunitense; estremismo su immigrazione, razza e genere; ostilità verso chi sostiene visioni tradizionali su famiglia, religione e moralità”. Fin qui nulla di nuovo rispetto all’ideologia Maga, che si muove nella saldatura tra istanze conservatrici tradizionali, il pensiero accelerazionista di Nick Land e le posture neoconservatrici di Curtis Yarvin.

Il memorandum, però, si spinge oltre, istituendo il National Joint Terrorism Task Force che, anche attraverso i suoi uffici locali (JTTFs), deve “coordinare e supervisionare una strategia nazionale per indagare, perseguire e smantellare entità e individui coinvolti in atti di violenza politica e intimidazione finalizzati a sopprimere attività politica lecite o ostacolare lo stato di diritto”. Il passaggio, a mio avviso, più allarmante è relativo al mandato dei JTTFs che devono investigare: “finanziatori istituzionali o individuali, funzionari o dipendenti di organizzazioni che sponsorizzano l’attività violenta” e “ong o cittadini statunitensi residenti all’estero o con stretti legami con governi stranieri o reti d’influenza che violano il Foreign Agents Registration Act o riciclano denaro per supportare il terrorismo interno”.

La copertina del numero di VITA magazine di ottobre

L’uscita del memorandum ha coinciso con la pubblicazione di un articolo sul New York Times, secondo il quale il Dipartimento di Giustizia avrebbe chiesto ai procuratori federali di investigare le Open Society Foundations di George Soros. Qualche giorno prima, in occasione della trasmissione streaming promossa per ricordare la scomparsa di Charlie Kirk, il vice-presidente J.D. Vance aveva già menzionato Open Society Foundations, insieme alla Fondazione Ford, come organizzazioni filantropiche “liberal” che, attraverso il loro supporto all’attivismo politico, contribuiscono al clima di odio verso gli esponenti dell’universo Maga. Naturalmente, le organizzazioni filantropiche non hanno fatto mancare il proprio pensiero, sottolineando la distanza da ogni forma di pratica violenta, enfatizzando, poi, con fermezza il rispetto nelle istituzioni e nelle regole che presiedono la democrazia americana.

Già in passato la dialettica tra Trump e le fondazioni liberal era stata molto accesa, ma la pubblicazione del memorandum sposta il piano della discussione su un livello radicalmente diverso. Non si tratta più di dissentire e criticare aspramente, ma l’amministrazione ha costruito un dispositivo repressivo che può “spegnere” un’organizzazione filantropica, qualora venga verificato il supporto verso soggetti che rientrino nelle maglie volutamente molto ampie del movimento “antifa”. Se da un lato, il memorandum riconosce implicitamente la “dimensione politica” dell’azione filantropica – affidandogli in questo caso il ruolo di villain – dall’altro tale riconoscimento determina delle conseguenze inattese, che segnano un salto di qualità dell’attuale processo di indebolimento di presidi, strutture, corpi intermedi, esperienze di attivismo e partecipazione civica.

Il messaggio è chiaro: non c’è alcun spazio per il dissenso, il pensiero woke – anche qui l’accuratezza definitoria è quasi irrilevante – deve essere silenziato, inceppandone i canali finanziari. Sebbene la nostra cultura filantropica sia molto distante da quella statunitense, l’approdo a modelli di democrazia neo-autoritaria, associati al lento svuotamento dei meccanismi della partecipazione, rappresenta un possibile esito della lunga crisi di senso che vive oggi l’Europa. Considerando, dunque, le differenze di sistema, quale potrà essere il posizionamento della filantropia europea rispetto al repentino cedimento dei pilastri sui quali si è costruita la democrazia del Vecchio Continente nel corso del ‘900? Uscendo dalla logica dei bisogni e abbracciando proattivamente quella delle sfide, possiamo concordare sull’urgenza di ricostruire una nuova grammatica della partecipazione? E se oggi l’istituzionalità è – ahimè – parte attiva del problema, come favorire e supportare l’emersione di nuove pratiche di attivismo, che non solo non si ritrovano nelle liturgie vuote della partecipazione politica del secolo scorso, ma anzi le voltano le spalle, sia nelle forme (pensiamo al linguaggio), che nella sostanza. Una società inclusiva – obiettivo alla base della missione di gran parte delle organizzazioni filantropiche – è tale non soltanto per i livelli di protezione sociale che è in grado di assicurare, ma per la densità e qualità della partecipazione che riesce ad innescare. Non a caso, osservando la storia, i momenti di avanzamento dei diritti sono correlati all’ampiezza delle mobilitazioni sociali, che si sono fatte carico di organizzare quelle vertenze. Cedendo al pessimismo della ragione, viviamo in un tempo straordinario, l’ampia frattura tra vecchi diritti da presidiare e nuovi da organizzare rischia di essere riempita da un progetto oligarchico e autoritario, che non si preoccupa affatto della forme e dei tempi della democrazia, vuole tutto e subito. Non domani, ma in un tempo ragionevolmente breve, la filantropia europea dovrà capire da che parte stare, se giocare in difesa, aggrappandosi alla neutralità delle proprie missioni, oppure stare dentro la costruzione di una nuova grammatica della partecipazione e della democrazia. 

Foto La Presse: il presidente Donald Trump parla ai giornalisti prima di lasciare la Casa Bianca

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