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Persone con disabilità, oltre la socializzazione: il vero obiettivo è l’autonomia

Anni fa il solo immaginare che esistessero associazioni e cooperative capaci di accogliere ragazzi con disabilità cognitiva dopo la scuola era qualcosa di rivoluzionario. Oggi questo non basta più

di Giovanni Ferrero

Molti anni fa, il solo immaginare che esistessero associazioni e cooperative capaci di accogliere ragazzi con disabilità cognitiva dopo la scuola era qualcosa di rivoluzionario. Quelle realtà offrivano spazi sicuri, laboratori creativi, piccoli spettacoli, feste di Natale. Genitori, amici e amministratori locali partecipavano con entusiasmo, applaudendo i risultati e riconoscendo il valore di chi si prendeva cura di quei ragazzi. Era un primo passo importante, e per l’epoca meraviglioso. Ma oggi sappiamo che non può bastare. La storia ci ha mostrato che molte di quelle stesse persone, con diagnosi simili, oggi lavorano, hanno una vita autonoma, partecipano alla società come adulti. È stato possibile perché, con il tempo, si è imparato a guardare oltre la disabilità, a valorizzare le abilità, a investire su di esse per trasformarle in competenze, dignità e indipendenza.

Oggi stimiamo che più del 10% della popolazione italiana rientri in condizioni di disabilità cognitiva o neurodivergenza, e se guardiamo al mondo della scuola le percentuali arrivano a sfiorare il 20% degli studenti

Negli ultimi dieci anni il panorama è profondamente cambiato. Sono cresciute in maniera significativa le diagnosi di neurodivergenze, che comprendono disturbi dello spettro autistico, Adhd, disturbi specifici dell’apprendimento e anche condizioni come le funzioni intellettive limite, spesso trascurate ma di grande impatto nella vita quotidiana dei ragazzi. Il risultato è che, rispetto a dieci anni fa, il numero di diagnosi è quasi raddoppiato. Oggi stimiamo che più del 10% della popolazione italiana rientri in condizioni di disabilità cognitiva o neurodivergenza, e se guardiamo al mondo della scuola le percentuali arrivano a sfiorare il 20% degli studenti. Non parliamo più di una minoranza ristretta, ma di una parte significativa della società, che chiede al sistema scolastico, alle famiglie e al Terzo settore di ripensare radicalmente le modalità di intervento. Proprio per questo il tema del tempo libero non può più essere considerato soltanto intrattenimento. Rimane fondamentale, come lo è per qualsiasi ragazzo, ma per chi vive una condizione di disabilità cognitiva o di neurodivergenza ha un valore in più: è tempo strategico. Le ore dopo la scuola, se ben progettate, possono diventare palestra di autonomia, occasione di sviluppo cognitivo e psicologico, laboratorio per sperimentare ruoli e competenze. In altre parole, non “tempo vuoto”, ma tempo che prepara il futuro.

Ed è ora di dirlo con chiarezza: basta con i saggi di fine anno pensati come obiettivo finale. Anche se dietro vi è un lavoro encomiabile di volontari e professionisti delle arti, oggi il vero “saggio” deve essere l’autonomia raggiunta dalla persona nella vita quotidiana. Non servono spettacoli in cui i genitori applaudono i figli perché sul palco fanno cose che forse nemmeno all’asilo si dovrebbero proporre. La qualità della persona, con o senza disabilità, si misura prima di tutto sul palco della vita, e poi – se ci sono le condizioni – anche su quello teatrale o artistico. Ben vengano entrambe le dimensioni, ma senza superficialità né carenze nell’accompagnamento psicologico, educativo o terapeutico. La diagnosi deve diventare l’indicatore che orienta anche le attività artistiche, perché l’arte può e deve essere uno strumento di crescita, non una vetrina fine a sé stessa.

Un altro aspetto da affrontare è il rischio della “moda dell’autonomia”. Negli ultimi anni, attorno a questo tema si sono moltiplicati i progetti finanziati, spesso simili tra loro e rivolti agli stessi beneficiari, che cambiano cappello passando da un’associazione all’altra. In molti casi si tratta di iniziative nate da piccoli nuclei, con presidenti che sono quasi sempre genitori — soprattutto madri — impegnati a costruire per i propri figli un percorso che però rischia di replicare schemi già esistenti. Il risultato? Attività frammentate, a volte ripetitive, che garantiscono consenso ma non sempre un reale salto di qualità per i ragazzi, e che generano uno sperpero di risorse. La domanda allora diventa inevitabile: per chi e per cosa si fanno questi progetti? La risposta non può più essere la stessa di vent’anni fa. Oggi non basta accontentarsi di “passare del tempo” in associazione. I genitori devono chiedere di più: che le associazioni diventino luoghi di crescita verso l’indipendenza, l’autodeterminazione e l’autonomia dei figli. Per ottenere questo non bastano la buona volontà dei volontari, la presenza saltuaria di un educatore o di uno psicologo. Serve un metodo, servono équipe multidisciplinari stabili: neuropsichiatri infantili, logopedisti, terapisti occupazionali, pedagogisti, accanto a educatori e assistenti sociali. Solo così il tempo libero diventa davvero un laboratorio di vita, e non l’ennesimo contenitore vuoto.

Qui entrano in gioco anche i grandi donatori: fondazioni bancarie, aziende ed enti pubblici. È fondamentale che, nel destinare contributi, chiedano al Terzo settore di creare percorsi efficaci, strutturati, guidati da figure professionali capaci di leggere la diagnosi e costruire un accompagnamento personalizzato. Spesso si associa la parola “diagnosi” a un’etichetta che limita o a un percorso “sanitario” che ingabbia, ma non è così: la diagnosi è oggi l’unico strumento reale che abbiamo per capire dove intervenire, come sostenere un ragazzo, quali abilità potenziare e quali fragilità colmare. Senza questa base, il rischio è offrire attività generiche che non incidono davvero sulla vita futura della persona.

Il Terzo settore ha davanti una sfida cruciale: trasformare il tempo libero da momento ricreativo a laboratorio di futuro. Non accontentarsi di offrire momenti di socializzazione, pur preziosi, ma progettare percorsi misurabili, documentati e condivisi, capaci di incidere davvero sulla vita delle persone. Perché l’inclusione non è un evento episodico, ma un percorso continuo: è la possibilità di diventare adulti capaci di abitare la società con dignità, autonomia e responsabilità.

Foto di Markus Spiske su Unsplash

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