Idee Welfare
Politiche attive del lavoro, il tradimento del modello lombardo
Quel modello nacque tra il 2006 e il 2014 come un esperimento di sussidiarietà e di personalizzazione che mirava a dare forma amministrativa a un’idea alta della persona e del lavoro. Un progetto in gran parte fallito nella pratica avendo messo al centro l'individuo e non la persona
Il modello lombardo delle politiche attive del lavoro, concepito tra il 2006 e il 2014, nacque come un esperimento di sussidiarietà e di personalizzazione che mirava a dare forma amministrativa a un’idea alta della persona e del lavoro. In quel disegno originario, ispirato alla dottrina sociale della Chiesa e al personalismo comunitario, la persona era al centro come soggetto di relazioni, non come semplice destinatario di prestazioni. A distanza di quasi vent’anni, è possibile constatare che quel modello ha progressivamente abbandonato i suoi principi fondanti, scivolando in un dispositivo burocratico che ha sostituito la persona con l’individuo-consumatore e la relazione di cura con la transazione commerciale.
Il sistema lombardo odierno, pur proclamando la “centralità della persona”, la riduce alla titolarità formale di una dote: un budget da trasformare in servizi presso operatori accreditati, come fosse un consumatore di servizi
Il tradimento più profondo è antropologico: la sostituzione del concetto di persona con quello di individuo. La tradizione personalista, da Mounier a Wojtyła, ha sempre affermato che la persona è costitutivamente relazionale: si realizza nel dono, nel riconoscimento reciproco, nel contributo al bene comune. L’individuo, al contrario, è l’unità atomica del mercato, isolata e autosufficiente, orientata alla massimizzazione della propria utilità. Il sistema lombardo odierno, pur proclamando la “centralità della persona”, la riduce alla titolarità formale di una dote: un budget da trasformare in servizi presso operatori accreditati, come fosse un consumatore di servizi. Le scelte che dovrebbero essere frutto di un processo progettuale condiviso vengono invece predeterminate da algoritmi di profilazione e da moduli standardizzati. Ciò riflette, in maniera implicita ma netta, l’adesione al paradigma dell’homo oeconomicus, incompatibile con l’impianto valoriale della legge regionale 22 del 2006 e 19 del 2007, nate, c’è bisogno di ricordarlo, da un team di dirigenti, pensatori e policy advisor di origine cattolica: Marino Bassi, Roberto Albonetti, Giampaolo Montaletti, Lorenza Violini tra gli altri. Se per l’impianto originario la persona si costituisce nella relazione, oggi il sistema lombardo concepisce l’individuo come monade che mantiene relazioni puramente strumentali; dove la persona dovrebbe cercare la realizzazione attraverso contributo agli altri, l’individuo presupposto dalla Dote persegue solo il proprio vantaggio. Ne deriva una contraddizione strutturale: si invoca la persona, ma si costruisce la policy attorno all’individuo. L’antropologia positiva, che era il fondamento originario del pensiero lombardo, ne viene completamente compromessa. In quella visione la persona è orientata alla verità, alla giustizia e al bene dell’altro: è dunque possibile fondare su questa capacità una visione fiduciosa della vita economica, della vita sociale e del lavoro, favorendo e premiando il desiderio di ognuno di organizzarsi per contribuire al bene comune. È questa visione che sta alla base del principio di sussidiarietà. Invece oggi prevale una visione schiettamente liberista dell’umano, alla Mandeville ancora più che alla Adam Smith: è del desiderio dell’individuo di perseguire i propri (micragnosi) interessi che nasce la pubblica virtù, attraverso la regolamentazione del mercato e allo sgocciolamento della ricchezza che ricorda molto le briciole del ricco Epulone.
Questa deriva antropologica ha effetti concreti. Il rapporto tra operatore e utente, che nel disegno originario doveva essere relazione di prossimità e di accompagnamento, è divenuto una transazione commerciale: l’operatore mira al rimborso, l’utente diventa il mezzo per ottenerlo. La standardizzazione, formalizzata nei Livelli Essenziali delle Prestazioni e nei panieri di servizi, ha trasformato strumenti relazionali in procedure seriali: l’orientamento è ridotto a checklist, il patto di servizio a un modulo da caricare, il bilancio delle competenze a un formulario. Come mostrano gli studi sperimentali di economica sperimentale, da Ernst Fehr a Richard Thaler, la riduzione delle relazioni a scambi fondati sull’interesse genera sfiducia e indebolisce la cooperazione. Gli operatori, vincolati a procedure rigide e a incentivi quantitativi, perdono la discrezionalità professionale necessaria a un vero accompagnamento: il tempo medio dedicato al singolo utente si riduce per inseguire i target numerici del Programma GOL, trasformando i Centri per l’Impiego in trattamentifici che processano unità statistiche, forse individui, non certamente Persone.
Anche la logica del finanziamento a risultato, apparentemente razionale, produce effetti perversi noti alla teoria economica degli incentivi. Gli operatori — pubblici e privati — tendono a privilegiare i casi più facili, a inserire in dote persone che sarebbero state assunte comunque, a minimizzare i servizi reali per massimizzare i margini. Come ha mostrato ad esempio Jean Tirole, quando si applicano logiche competitive a servizi di interesse pubblico senza adeguati dispositivi di controllo e governo, l’esito è la degradazione del servizio e la proliferazione di comportamenti opportunistici e abusi. Peraltro, la “competizione” tra operatori non ha generato qualità perché il sistema non ha dato sufficiente spazio di discrezionalità per agire sulla differenziazione e la qualità dei servizi: la standardizzazione ha generato una omogeneizzazione verso il basso, dove l’unica variabile discrezionale è diventata produrre efficienza dalla contrazione di salari e parametri orari dei professionisti incaricati. Chi investe nelle situazioni più difficili viene penalizzato da un sistema di valutazione e assegnazione di budget ed extra budget che misura solo indicatori quantitativi, incapaci di cogliere la complessità dei percorsi di inclusione, ma che anzi producono comportamenti opportunistici che per migliorare la performance numerica riducono la qualità e l’utilità per le persone prese in carico.
Il principio della libertà di scelta, pilastro della sussidiarietà, si è rivelato in larga misura formale. L’utente sceglie tra operatori presenti in un catalogo rigido, senza informazioni attendibili sulla qualità. Il principio di sostegno alla domanda e non all’offerta (cardine del sistema), che discende da un’idea di cittadino razionale e perfettamente informato, si scontra con la realtà: le famiglie decidono per prossimità, abitudine o marketing degli operatori, non per qualità intrinseca e nemmeno più per vicinanza valoriale (che doveva essere il pilastro della scelta nella concezione originaria delle policy). L’esperienza lombarda conferma la lezione di George Akerlof: in presenza di asimmetrie informative e senza meccanismi credibili di segnalazione della qualità, il mercato tende a selezionare in basso. Un sistema di rating schiettamente quantitativo che misuri l’efficacia non è la soluzione a meno di non ridurre la persona ad individuo. Gli indicatori — tassi di inserimento, tempi di presa in carico, numero di servizi erogati — non misurano la qualità relazionale né l’efficacia sostanziale. Per accompagnare la scelta converrebbe valorizzare e premiare reti relazionali e di valori condivisi. Il principio della prossimità territoriale, che doveva radicare i servizi nelle comunità, è stato eroso dalla centralizzazione dei sistemi informativi e dalla standardizzazione. Gli operatori locali, un tempo custodi delle reti territoriali, sono stati trasformati in terminali di un sistema centrale. La digitalizzazione accelerata dalla pandemia ha accentuato il distacco, creando barriere soprattutto per le fasce più fragili che avrebbero più bisogno di accompagnamento personalizzato. In questo contesto il concetto di personalizzazione si svuota: i Piani di Intervento Personalizzato sono assemblaggi di moduli predefiniti, e le persone con bisogni complessi vengono incasellate in fasce rigide. Come ricorda Amartya Sen, la vera personalizzazione richiede di partire dalle aspirazioni e dai vincoli effettivi di ciascuno, non dall’applicazione meccanica di profili standardizzati. Il sistema lombardo ha invece adottato una logica di segmentazione mutuata dal marketing, trattando le persone come cluster da gestire. Non più persone come nella rivoluzione ideale del 2007, ma consumatori.

Gli effetti di questa deriva si riflettono anche sulla qualità del lavoro. Gli operatori, ridotti a compilatori di moduli, sperimentano frustrazione professionale: il fatto che un quinto dei lavoratori del sociale si senta “sovra-formato” rispetto alle mansioni svolte segnala uno spreco di competenze. Gli utenti incontrano percorsi standardizzati di scarsa utilità: la formazione è spesso erogata per saturare budget, non per rispondere ai reali bisogni del mercato locale, e solo una minoranza dei partecipanti trova occupazioni coerenti. Il tradimento del modello lombardo non è un destino, ma il risultato di scelte politiche e organizzative. Come ricorda Axel Honneth, il lavoro ha senso quando consente il riconoscimento reciproco dell’identità e del contributo di ciascuno: questo richiede di mettere al centro la relazione, non la transazione; la persona, non l’individuo; la comunità, non il mercato. Una riforma autentica deve partire dal riconoscere che i servizi per il lavoro non sono beni di mercato ma relazioni di cura, che richiedono tempo, competenza, discrezionalità professionale. Deve superare l’illusione che la competizione generi automaticamente qualità e riscoprire il valore della cooperazione, quando sostenuta e regolata in modo appropriato.
Il modello lombardo nacque con l’ambizione di tradurre in prassi amministrativa una visione alta della persona e del lavoro. Il suo fallimento non deriva dall’inadeguatezza di quella visione, ma dal suo progressivo abbandono a favore di una concezione riduzionista e mercantile delle politiche attive. Recuperare i principi fondanti significa rimettere in discussione l’antropologia stessa che guida il sistema. Solo riconoscendo che la persona non è un consumatore e che il lavoro non è una merce, ma una relazione, sarà possibile tornare a politiche efficaci e rispettose della dignità umana. Il 31 dicembre 2025 termina il Programma Gol. È il momento di ripensare al sistema, ripartendo dai propri assunti valoriali e dunque ripensandone i presupposti.
Foto di Sergey Omelchenko su Unsplash: i navigli di Milano
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