Idee Geografie e relazioni

Quel magnete invisibile che convince i giovani a restare

Cosa rende un territorio di medie dimensioni davvero attraente per un giovane oggi? Possibilità, comunità e identità. Dopo decenni di globalizzazione sfrenata, di pendolarismo estremo, di vite frammentate tra casa, lavoro e svago, molti oggi desiderano riscoprire il valore del chilometro zero esistenziale. Quando i territori avranno il coraggio di dire "Venite, non abbiamo tutte le risposte, ma abbiamo spazio per le vostre domande”, allora vedrete generazioni intere tornare, restare, scegliere

di Adriano Bertone

La biennale di architettura a Venezia, quest’anno è dedicata al tema del rapporto tra intelligenza umana, artificiale e collettiva: il che fa sorridere per l’ambizione dei curatori, dato che a volte basterebbe anche solo l’intelligenza, punto, o una sua parvenza, per ripensare i territori. Tuttavia, come sappiamo non sempre è così, eppure ripensare un sano dialogo fra diverse forme di intelligenza risulta oggi fondamentale. E questo vale ancora di più se ci interroghiamo sul rapporto che esiste fra le nuove generazioni e i luoghi che questi abitano: perché un territorio, alla fine, è un linguaggio del quotidiano. Se parla chiaro, i giovani lo capiscono e rispondono; se balbetta, lo lasciano sul visualizzato senza risposta.

Questo succede perché un territorio non è un perimetro. È una promessa. Per meglio dire, è l’insieme dei “domani” credibili che offre ai propri cittadini. Se la promessa è chiara, i giovani restano; se la promessa è vuota, i giovani se ne vanno, e non per capriccio, ma per dignità. I territori non perdono i giovani perché sono fragili; li perdono quando smettono di essere desiderabili. Quando smettono di pensarsi per tutti e diventano proprietà di qualcuno o qualcosa.

Nelle città, come per un albero, le radici non servono a trattenerci, dovrebbero servire a farci crescere verso l’alto

Da questo punto di vista dobbiamo dircelo chiaramente: abitiamo un mondo dove prendiamo scelte bizzarre. Con l’intelligenza artificiale, oggi, per esempio, ci entusiasmiamo come bambini: sembra magia. Ma prendete un’auto a guida autonoma e mettetela in mezzo al nulla: senza strade, segnaletica, mappe, rete, è solo ferraglia elegante. L’Ai non è “intelligente” in sé; pare intelligente perché abbiamo adattato il mondo attorno a lei affinché funzioni. Abbiamo piegato l’ambiente all’algoritmo. E allora, c’è da chiedersi: perché con i giovani pretendiamo l’opposto? Perché ci aspettiamo che il talento generazionale fiorisca senza aver modellato l’ambiente perché questo accada? Non basta dire “i giovani sono il futuro” se il presente è
progettato contro di noi.

Milano scoppia e a 200 km. le scuole chiudono

Viviamo un paradosso straordinario. Milano scoppia, i monolocali costano quanto ville al mare, la metro è un formicaio umano dalle otto del mattino. Contemporaneamente, a 200 chilometri di distanza, interi borghi si svuotano, scuole chiudono, l’ultimo bar abbassa la serranda. È come se l’Italia fosse diventata una gigantesca clessidra rovesciata: tutta la sabbia si accumula in pochi punti mentre il resto del contenitore resta vuoto.

Eppure, se guardiamo i dati sulla qualità della vita giovanile, scopriamo qualcosa di sorprendente: Milano, Roma, Napoli e Torino occupano le ultime posizioni della classifica. Non le prime. Le ultime. Superate da Gorizia, Bolzano, Cuneo. I centri medio-piccoli. Come è possibile che le città che concentrano le opportunità siano diventate i luoghi dove i giovani vivono peggio? La risposta è semplice quanto brutale: un monolocale a Milano costa tra gli 800 e i 1.300 euro al mese. A Roma siamo oltre i mille euro. Per un ventenne con uno stipendio medio, significa destinare il 50% del reddito solo all’affitto, quando va bene, prima ancora di mangiare, spostarsi, vivere.

Cuneo non sarà mai San Francisco. E più le
nostre città vorranno provare a imitare quei modelli, più alla copia i giovani preferiranno sempre l’originale. Ma i territori di questa provincia possono essere le città dove si sperimenta meglio

E qui giunge la domanda centrale che ci dobbiamo porre: ma cosa rende davvero un territorio di medie dimensioni attraente per un giovane oggi? Per uno di quei ragazzi che vive nell’istante, ma ha la testa già al 2050? Cosa può convincere a restare o rimanere? A mio avviso, un territorio diventa magnetico quando offre tre cose fondamentali: possibilità, comunità e identità.

Possibilità

La possibilità non è solo lavoro. È molto di più. È la sensazione che in quel luogo tu possa diventare chi vuoi diventare. È lo spazio – fisico e metaforico – per sperimentare, fallire, riprovarci. È la certezza che le tue strane idee trovino orecchie curiose invece che sguardi
perplessi. Pensate a Bologna negli anni ’70. Non era ricca, non era perfetta, ma era porosa. C’erano crepe nel sistema dove i giovani potevano infiltrarsi e creare. Radio libere, centri sociali, cooperative. Non sto dicendo di replicare quel modello – ogni epoca ha le sue forme – ma di recuperare quella porosità.

Oggi vivere un territorio diventa possibile quando ti lascia usare spazi pubblici per progetti folli; quando accetta che il fallimento è pedagogia, non vergogna; quando capisce che un ventenne con un’idea, in prospettiva, vale quanto un sessantenne con un’azienda. Dopotutto, non c’è futuro, per un paese che non investe in chi quel futuro lo dovrà vivere. Ci dobbiamo ricordare di questo, come dobbiamo tenere sempre a mente che ovunque un territorio cresce alla velocità della fiducia che concede ai suoi giovani.

Comunità

La possibilità senza comunità è solitudine con wi-fi veloce. E qui sta forse il grande equivoco delle smart cities. Si è pensato che bastasse la tecnologia a creare connessione.
Invece hanno creato non-luoghi digitali, dove sei sempre connesso ma mai veramente insieme. La comunità che cercano i giovani oggi non è quella del paese dove tutti sanno tutto di tutti – quella è sorveglianza, non comunità. È una comunità elettiva, fluida, basata su affinità e progetti comuni.

Ma attenzione: questa comunità nasce dove vi sono infrastrutture relazionali. Spazi dove incontrarsi per caso, non per forza. Luoghi che non chiedono consumo per giustificare la presenza. Tempi vuoti che permettono l’improvvisazione. Per fare alcuni esempi, concreti: a Siena negli ultimi anni, lo sviluppo di una sinergia con comune e fondazioni locali, ci ha permesso di costruire un consiglio dei giovani allargato che ha spinto e sostenuto la nascita di un vero e proprio incubatore dell’innovazione sociale. Ikigai Hub, una interessantissima esperienza di incubazione del talento e promozione di partenariati visionari; ancora, a Ferrara, i giovani arrivati da tutta Italia per co-progettare una
città a misura di futuro, chiamati dall’amministrazione locale e coordinati dall’impresa sociale Generazione T, hanno dimostrato la voglia delle nuove generazioni di rispondere presente di fronte a una comunità che li ha accolti. Hanno detto sì a una comunità che però aveva una idea chiara della direzione in cui voleva muoversi e che ha scelto sapientemente di mettere in mano ai più giovani un serio e preciso potere decisionale.

Identità

E qui arriviamo al punto più delicato. L’identità. Non quella folcloristica delle sagre della porchetta – con tutto il rispetto, per la porchetta. Parlo di un’identità dinamica, che sa da dove
viene ma soprattutto sa dove vuole andare. Nelle città, come per un albero, le radici non servono a trattenerci, dovrebbero servire a farci crescere verso l’alto. Una comunità che intende in questi termini la costruzione di una identità condivisa, non genuflette i suoi giovani alla regola del “si è sempre fatto così”, ma fornisce loro la scala per guardare più lontano. Una città diventa cioè attraente quando è chiara nel messaggio che vuole trasmettere e quando respinge ogni subdola forma di ambiguità: non saranno slogan superficiali, come maschere dietro cui nascondere il desiderio di far sembrare di voler cambiare tutto, senza mai cambiare
davvero niente, che renderà un territorio attraente. Serve un passo in più, autentico e chiaro, capace di trasmettere un messaggio univoco: “ai giovani, la possibilità di essere”.

Come? Con scelte forti. Un esempio concreto: uno dei temi più dibattuti nell’ambito dell’urbanistica contemporanea è quello della perequazione territoriale. Si tratta cioè, semplificando, del bisogno sempre più ricorrente per i comuni di trovare un modo per spostare spazi da un luogo all’altro per migliorare la distribuzione generale delle risorse. Ecco, davanti a questo fenomeno, allora, un territorio con una identità chiara, convinto del bisogno
di fornire possibilità, sostituisce alla perequazione territoriale la perequazione generazionale, insistendo su una precisa valutazione dell’impatto generazionale prodotto da queste misure.

Un rapporto sano con il tempo

Questi sono i fattori che io credo rendano attraente un territorio. Messaggi chiari e concreti. Accanto a ciò, c’è poi un elemento trasversale che attraversa tutto ciò di cui abbiamo appena parlato: il tempo. I territori che convincono a restare o tornare sono quelli che hanno un rapporto sano col tempo. Non la fretta metropolitana che divora il presente in nome del futuro. Neppure però la lentezza nostalgica che imbalsama il passato. Ma un tempo ecologico, che rispetti i ritmi umani e naturali pur essendo connesso ai flussi globali. È quello che io chiamo il “tempo poroso”: denso di possibilità ma con spazi vuoti per respirare. Produttivo ma non performativo. Veloce quando serve, lento quando giova.

I giovani della mia generazione – cresciuti nell’accelerazione perpetua, nel multitasking come stato dell’essere, nella notifica come metronomo esistenziale – cercano disperatamente territori che offrano un’altra temporalità. Non però, come spesso è, il tempo morto della noia provinciale, ma il tempo vivo della presenza.

La rivincita della prossimità

E in questo, io vedo una grande occasione per i territori di medie dimensioni. C’è una rivoluzione silenziosa in corso che Carlos Moreno ha chiamato “la città dei 15 minuti”, ma che possiamo chiamare la rivincita della prossimità. Dopo decenni di globalizzazione sfrenata, di pendolarismo estremo, di vite frammentate tra casa, lavoro e svago, molti oggi desiderano riscoprire il valore del chilometro zero esistenziale.

Attenzione: di nuovo, prossimità non significa provincialismo. Significa densità di opportunità in spazi contenuti. Significa che questi luoghi, possono tornare a essere competitivi, se nel raggio di una passeggiata in bicicletta mi permettono di trovare: il fablab dove prototipare la mia idea, il teatro che ospita la mia associazione artistica, la biblioteca che è anche spazio di co-working notturno, il parco dove si fa yoga al mattino e concerti la sera.

Questa densità relazionale e funzionale non è prerogativa delle metropoli. Anzi, paradossalmente, le città medie e piccole possono realizzarla meglio, perché hanno scala
umana e tempi umani. Bisogna solo stare attenti e ricordarci una cosa: Cuneo non sarà mai San Francisco. E più le
nostre città vorranno provare a imitare quei modelli, più alla copia i giovani preferiranno sempre l’originale
. Ma i territori di questa provincia possono essere le città italiane dove invece si sperimenta meglio la mobilità sostenibile, dove il rapporto con l’ambiente diventa laboratorio di ecologia urbana, dove la tradizione si trasforma in realtà aumentata. Per questo non è richiesto a questi territori una imitazione, ma una reinterpretazione radicale di sé.

Il magnete invisibile dei territori

Io penso che il vero magnete invisibile dei territori non sono i servizi, le infrastrutture, le opportunità di lavoro, che pure sono fondamentali e direi che sono la conditio sine qua non per essere “territori attraenti”. Ma ancora di più, ciò che attrae è il fermento: la sensazione di essere parte di qualcosa che sta nascendo. I giovani non vanno dove le cose funzionano perfettamente. Vanno dove possono avere spazio per farle funzionare. Non cercano territori arrivati ma territori in divenire. Non vogliono eredità da gestire ma storie da scrivere.

Il magnete invisibile allora è la possibilità di essere autori, non spettatori, della trasformazione territoriale. È la certezza che le proprie energie creative non saranno sprecate
in frustrazioni burocratiche ma investite in cambiamento reale. È per questo che la mia generazione, quella che tutti danno per persa, dispersa, in fuga, è in realtà in attesa. In attesa di territori che abbiano il coraggio di dire: “Venite, non abbiamo tutte le risposte, ma abbiamo spazio per le vostre domande”.

Quando i territori avranno questo coraggio – il coraggio dell’incompletezza creativa, della vulnerabilità progettuale, della fiducia radicale – allora vedrete. Vedrete generazioni intere tornare, restare, scegliere. Non per nostalgia, non per ripiego, ma per desiderio. Quando
saremo cioè in grado di costruire contenitori in cui le nuove generazioni possano spendere le proprie competenze, allora qualcosa cambierà. Perché alla fine, la questione non è come trattenere i giovani nei territori. La questione è come
trasformare i territori in luoghi che i giovani non vogliano lasciare. Non per obbligo, non per mancanza di alternative, ma per una scelta d’amore. E l’amore, si sa, non si impone. Al massimo, si seduce.

La fotografia in apertura è di Devin Avery su Unsplash

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