Idee Diritti
Riforma della disabilità: un esame per pubblica amministrazione e Terzo settore
Il cuore della riforma è il superamento del concetto di “inclusione” – che ancora presuppone gruppi separati da integrare – per affermare quello di partecipazione, che significa diritto di essere parte a pieno titolo della società. Un passaggio che può diventare un banco di prova: non solo per misurare l’efficacia delle nuove politiche pubbliche, ma per verificare la capacità degli enti del Terzo settore di assumere fino in fondo il proprio ruolo di attori di trasformazione sociale
La riforma della disabilità rappresenta uno spartiacque importante: c’è un prima e ci potrebbe essere un dopo. I temi toccati sono molti, necessari e stimolanti, a partire dal cambiamento di linguaggio che segna l’approccio alla relazione tra persone. Scompare, finalmente, l’utilizzo del termine “handicappato”, parola che da sola riduceva la persona a un cittadino di serie B, e viene introdotta l’espressione “persona in condizione di disabilità”.
La scelta del termine condizione non è casuale. Dal latino condicĕre – “accordarsi, convenire” – rimanda a qualcosa di mutevole, non definitivo, e allo stesso tempo condiviso. Una condizione è ciò che accomuna, non solo ciò che distingue. Può cambiare, e nel suo cambiamento può spingerci a riorganizzare e ripensare. La discriminante non diventa quindi più la disabilità in sé, ma la funzionalità sociale della nostra condizione. Parto dalla parola, non per citare Moretti in Palombella rossa, ma perché l’approccio alla disabilità è prima di tutto culturale, di diritto e di società.
La riforma pone al centro la persona, non la sua disabilità; la potenzialità, non il limite. Non significa negare i limiti, ma riconoscere che, come in tutte le esperienze di vita, il focus deve essere su ciò che può essere migliorato, cambiato, valorizzato, per costruire benessere e realizzare sogni. Cambiare i termini significa cambiare la cultura, e da questo possono nascere politiche sociali realmente aperte.
Dal limite al progetto di vita
La condizione di disabilità comporta necessariamente un sostegno, variabile in intensità, che oggi viene letto secondo parametri di qualità della vita. È un cambio di paradigma rispetto al passato: non più solo diagnosi e patologia biologica, ma una valutazione multidimensionale. La persona non è mai riducibile a un solo aspetto, e il modo in cui la guardiamo cambia tutto. Se ci concentriamo sui diritti, penseremo agli interventi necessari per sviluppare competenze; se ci fermiamo ai limiti, rischiamo di tornare a chiudere le persone in istituti, uno spettro che credevamo superato ma che negli ultimi anni si è riaffacciato con forza.
Il cuore della riforma è il Progetto di Vita. Non si tratta di una novità assoluta – già la legge 328/00 parlava di progetto individuale – ma oggi la sfida è rilanciata con forza. Il progetto di vita riconosce alla persona in condizione di disabilità il diritto di essere protagonista del proprio futuro. Due elementi lo caratterizzano: la ricerca della giusta quantità e qualità di interventi personalizzati e, soprattutto, la partecipazione della persona nei diversi ambiti di vita, esattamente come accade per chiunque.
Qui sta la vera svolta: si supera il concetto di “inclusione” – che ancora presuppone gruppi separati da integrare – per affermare quello di partecipazione, che significa diritto di essere parte a pieno titolo della società.
Partecipazione, Terzo settore e rischi di spersonalizzazione
Il concetto di partecipazione guida anche la costruzione del progetto di vita: la persona con disabilità (o una figura di fiducia), l’équipe medica, i servizi sociali e il Terzo Settore devono collaborare. Quest’ultimo ha avuto un ruolo decisivo negli ultimi decenni: da una parte nella battaglia per i diritti, dall’altra nella progettazione e gestione di servizi capaci di dare risposte concrete ai bisogni. Nella riforma non potrà che essere un attore centrale.
Eppure, il nodo cruciale è come questa riforma si intreccerà con il sistema sanitario e sociosanitario attuale, che negli anni ha spinto verso una crescente spersonalizzazione della cura, costruendo sovrastrutture burocratiche che spesso hanno trasformato i servizi in “mini-ospedali”. La categorizzazione per patologie e la standardizzazione degli interventi hanno frammentato e irrigidito il sistema.
La riforma dovrà allora incidere sull’architettura dei servizi, ripensandoli come spazi di vita dinamici e a misura di persona, capaci di rispondere ai bisogni quotidiani e di sostenere le aspirazioni individuali. Sarà fondamentale rivedere anche i criteri di autorizzazione e accreditamento, che negli ultimi anni hanno limitato la possibilità di innovare e di costruire servizi generativi, non omologati.
Il ruolo del Terzo settore: tra responsabilità e trasformazione
La riforma interpella in modo diretto anche gli enti del Terzo settore. Per anni essi hanno rappresentato non solo un presidio di prossimità e di vicinanza, ma anche un laboratorio di sperimentazione sociale, capace di costruire risposte nuove dove il sistema pubblico faticava ad arrivare. Oggi, però, questa funzione è messa alla prova: il rischio è che gli enti si limitino ad adattarsi a un quadro normativo e organizzativo già dato, perdendo quella spinta innovativa che li ha resi indispensabili.
La vera sfida è duplice. Da un lato, i servizi devono essere ripensati per rispondere ai nuovi criteri introdotti dal Progetto di Vita: interventi personalizzati, dinamici, capaci di valorizzare le aspirazioni individuali e di costruire opportunità di partecipazione reale. Dall’altro, le organizzazioni stesse sono chiamate a un rinnovamento interno, che riguarda le modalità di gestione, il rapporto con i territori e il modo di costruire alleanze con famiglie, comunità locali e istituzioni.
Non è più sufficiente “erogare” servizi: occorre tornare a essere soggetti politici e culturali, capaci di proporre visioni di società. Il Terzo settore dovrà farsi promotore di un welfare rigenerativo, che superi la logica prestazionale e settoriale per affermare un’idea di cura come bene comune, intrecciato con la vita quotidiana delle persone.
La riforma della disabilità, in questo senso, può diventare un banco di prova: non solo per misurare l’efficacia delle nuove politiche pubbliche, ma per verificare la capacità degli enti del Terzo settore di assumere fino in fondo il proprio ruolo di attori di trasformazione sociale. Un ruolo che implica responsabilità, coraggio e visione: responsabilità perché chiamati a rappresentare le istanze più fragili della società; coraggio perché occorre sfidare prassi burocratiche consolidate; visione perché la vera posta in gioco è il futuro della convivenza civile e la qualità democratica dei nostri territori.
Se sapremo raccogliere questa sfida, la riforma non sarà solo un passaggio tecnico, ma un’occasione storica per riscrivere il patto tra persone, istituzioni e comunità. In gioco non c’è solo il futuro dei servizi di cura, ma la possibilità di costruire una società più giusta e umana.
Foto La Presse: la ministra per le Disabilità, Alessandra Locatelli
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