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Welfare & Lavoro

Coiro aveva un sogno…

Il giudice Maisto rivela: poco prima di morire, il direttore degli istituti di pena stava cercando di risolvere il problema dei bambini “prigionieri” con le loro madri

di Cristina Giudici

Il 7 giugno scorso ?Vita? aveva sollevato la questione dei 46 bambini detenuti nelle carceri italiane insieme alle loro madri. Il direttore generale del Dipartimento amministrazione penitenziaria, Michele Coiro, proprio nelle ultime settimane stava lavorando a un protocollo d?intesa con la Regione Lombardia per trasferire mamme e bambini detenuti in una struttura senza sbarre. È solo l?ultima delle iniziative di Coiro, in meno di un anno di attività tesa a rendere più vivibile il carcere italiano. Coiro non è riuscito a portare a termine quest?ultima iniziativa: lunedì 23 giugno è morto nel policlinico romano Umberto I per un?emorragia celebrale. Per capire chi fosse diventato Coiro per i detenuti, basta leggere un brano di di Adriano Sofri nella sua rubrica ?Piccola posta?: «Stamattina (domenica 22), all?aria, un prigioniero mi ha gridato da lontano la notizia del suo malore . Si è fatto un silenzio, serio ed ansioso… (eppure) non è facile che le persone che stanno in galera, in queste galere, provino un sincero dolore per qualcuno che rappresenta questo sistema penitenziario». Una prova inconfutabile di quanto Michele Coiro, giudice approdato alla direzione dell?amministrazione penitenziaria per dribblare il percorso a ostacoli dei corridoi delle procure italiane, rappresentasse nei fatti il ?carcere della speranza?, ipotizzato anni fa dal suo predecessore, Niccolò Amato. Alla direzione del carcere era arrivato nel settembre scorso. Solo, senza un collaboratore di fiducia né uno staff personale. Sconvolto dallo stato delle carceri italiane, era diventato subito un paladino dei diritti dei detenuti e di un progetto di carcere finalizzato non solo alla punizione ma alla rieducazione. Aveva iniziato a dare scudisciate a un sistema immutabile e scriveva con i fatti un lungo testamento d?amore per tutti gli uomini privati, spesso ingiustamente, della propria libertà. Doveva andare in pensione fra poco: a ottobre. Eppure nel giro di pochi mesi aveva sollevato il coperchio di una grande pentola a pressione, rendendo visibile agli occhi di tutti la disperazione del regime penitenziario. E non c?è chiesa che non abbia qualcosa per cui rendergli omaggio. Don Gelmini di Comunità Incontro, con cui aveva condiviso la speranza di destinare i tossicodipendenti a luoghi di cura e non di detenzione; Luigi Pagano, direttore di San Vittore, che ha ammesso di non aver avuto il tempo di capirlo ma di aver però intuito la forza prorompente delle sue iniziative che hanno destato scandalo e «tolto la polvere a un?amministrazione ammuffita abituata a non pensare a niente»; il ministro Flick che ricorda: «Portare Coiro alle carceri è stata forse la cosa migliore che ho fatto». Ma il carcere sognato da Michele Coiro lo conosceva bene soprattutto il suo amico di sempre, il sostituto procuratore generale di Milano Francesco Maisto: «Pochi giorni prima di morire mi disse: ?Fra poco me ne andrò in pensione, vorrei almeno tirare fuori i bambini dalle carceri?. Così pensammo alla dislocazione permanente dei bambini costretti a stare in carcere con i bambini. Il merito di Coiro è stato di agire in merito ai buchi neri del carcere e ridurre il margine di libero arbitrio e abuso. Insomma non era certo uno che faceva ricamini…». Michele Coiro era angosciato dai suicidi, dalla disperazione delle carceri. In novembre aveva proposto di rivedere tutte le condanne pesanti perché era convinto che nessun uomo potesse rimanere a lungo lo stesso dopo aver compiuto un reato. Nel marzo del ?97 aveva proposto la depenalizzazione per i reati minori connessi alla droga, poi aveva firmato una circolare che l?occhio impietoso della stampa aveva denominato ?l?ora d?amore? (in realtà un grande passo avanti per garantire l?affettività ai detenuti). Nelle ultime settimane, poi, s?era interrogato sull?allarmante aumento dei suicidi in carcere. In dicembre, quando ?Vita? sollevò il caso di Natalia Ligas, ex brigatista trasferita e dimenticata per quattro anni nel carcere di Messina, Michele Coiro dimostrò una sensibilità inaspettata. Due ore dopo l? uscita del nostro settimanale in edicola, fu lui stesso a cercarci per farci sapere che la Ligas sarebbe stata trasferita, anzi che «era già in viaggio per il carcere romano di Rebibbia». Un testamento il suo, di fatti e azioni tracciate nel sistema penitenziario: speriamo possano segnare una solida traccia per chi prenderà il suo posto. L?opinione Così lo ricorderemo Quando sua figlia Paola mi ha telefonato per darmi la brutta notizia, ero sull?Aspromonte. Provo un profondo dolore per questa perdita inaspettata. Michele Coiro sognava di tirare fuori dalle carceri i tossicodipendenti, realizzando strutture simili alle comunità dove i ragazzi potessero ritrovare un senso alla vita. Era un uomo mansueto e forte che sapeva esercitare la giustizia, suscitando negli uomini il senso della liberazione, ma è stato soprattutto un uomo onesto, colpito ingiustamente e pesantemente dalla cultura del sospetto. Aveva una semplicità disarmante che forse qualcuno ha ritenuto inesperienza. Ha saputo mettere in discussione i meccanismi, e questo alcuni uomini del palazzo non glielo hanno mai perdonato. Eravamo molto amici e spesso veniva a trovarci, mi telefonava per darmi consigli utlii sull?iter burocratico da seguire per far evitare il carcere a qualche ragazzo. Era un uomo laico che aveva la cultura dello Stato e molta fede nell’uomo. Negli ultimi tempi era molto angosciato dai suicidi in carcere, sconvolto dalla non dignità della vita e del tempo dentro il carcere. Quando è morto abbiamo deciso di dedicare il nostro centro situato nel cuore dell?Aspromonte a lui e al suo sogno di umanizzare il carcere.

di Pierino Gelmini


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