Attivismo civico & Terzo settore

Il sessismo del non profit

Per dieci anni è stata presidente di Cgm, il più grande consorzio di cooperative sociali d'Italia. Intervista a Livia Consolo.

di Ettore Colombo

Livia Consolo (52 anni, bresciana, a lungo sposata e ora divorziata, due figli di 32 e 27 anni), presidente del consorzio Cgm sino al 2002 oggi a capo della società consortile Aster-X, che – nata nel 1999 – del Terzo settore è una realtà nuova e innovante perché vuole "valorizzare e incrementare le risorse e le competenze presenti nella rete dei propri soci" (16 realtà di livello nazionale e 34mila realtà locali, 4,5 milioni di persone-utenti: insomma, un “partner strategico” per pubblico e privato), ha il piglio, la tempra e gli impegni della donna-manager. Quelle genere Confindustria democratica, per capirci. Di fronte a frasi tipo "serve una strumentazione che consenta di fare meglio il bene" o ad agende fitte di impegni e solerti segretarie che la chiamano dentro/fuori da interminabili riunioni in uffici lindi e pinti, temi il demone berlusconiano, nell'unica donna che conta nel Terzo settore. Poi ne scopri la storia e ti tranquillizzi. Per le cose – importanti e nette – che dice e per come le dice. "Io non riesco a cambiare", spiega. "Ho cominciato pulendo il culo agli anziani e continuo a non considerarlo una cosa vergognosa: semplicemente, a cinquant'anni e passa, con il sapere che ho acquisito, è più utile che faccia un progetto in più o un business plan in più per un?impresa sociale. è una questione di produttività del tempo, non una questione di ruolo. Non troverei assolutamente disdicevole e degradante continuare a fare quello che facevo all?inizio. Magari, prima o poi, torno a farlo". Livia Consolo, piccola e tosta, sorridente ma dal piglio imperioso, marcato accento bresciano, nonostante viva a Roma da anni, ci ricorda – a pensarci bene – una donna social-leghista, nel senso che assomma su di sé il meglio della tradizione operaia, quella che ?si sporca le mani?, e il solo atteggiamento sano della prima Lega, quello di chi è produttivo e incorruttibile. Anche in trasferta.

Vita: Le regole sono regole. Queste interviste cominciano sempre allo stesso modo. Cosa faceva, dieci anni fa, Livia Consolo?
Livia Consolo: Ero presidente di Cgm, cioè del Consorzio Gino Mattarelli, consorzio che mette in pratica e trae tutte le conseguenze necessarie di un principio: mettere assieme e aiutare quelli che da soli non ce la fanno. E quelle di una norma: la legge 381 sulla cooperazione sociale, che disciplinava la materia dando vita a un modo nuovo di fare cooperazione.

Vita: Credo che qui, come nei romanzi gialli, convenga fare un passo indietro. C'è un territorio, il bresciano, con delle caratteristiche tutte sue, e un periodo storico – quello tra gli anni 70 e gli 80 – che, a cavallo tra politica e società, fanno da ?brodo di cultura? alla cooperazione sociale. è così?
Consolo: Sicuramente Brescia, dove sono nata e cresciuta, è una città dove c'è una tradizione di cattolicesimo molto illuminato nell?élite della città e contemporaneamente cattolici di base e una classe operaia molto legati a iniziative di sindacato e di cooperazione sul territorio che trovavano, dall?altra parte, cioè tra le élite cattoliche illuminate, forti consonanze. Da sempre, a Brescia, per dare un?idea, si sposano i Montini e gli autoconvocati dei sindacati metalmeccanici. In consiglio comunale sia la Fim-Cisl che la Fiom-Cgil eleggono da sempre loro rappresentanti mentre una parte della sinistra di formazione operaia promuove iniziative solidaristiche e sociali. C?è quindi, di fatto, un tessuto molto produttivo dal punto di vista delle relazioni, che ?scavalca? storie in teoria così diverse: non a caso negli anni 70 il comitato del centro storico che gestiva la sanità (allora non si chiamavano ancora Asl ma Csz) quando si scioglie, per la riforma sanitaria, decide di destinare i ricavi di cassa all'unica cooperativa di donne esistente, quella dell?Udi, da me presieduta, per avviare l?assistenza domiciliare agli anziani. Grazie al “connubio” dunque tra sinistra democristiana al potere e Udi, cioè Pci, nasce la prima cooperativa di servizi sociali della città, che poi sarà la fonte di alimentazione della filiera che mi porterà alla guida di Legacoop. Dall'altra parte c?erano i gruppi parrocchiali che, negli stessi anni, s'inventavano la cooperazione poi detta “di solidarietà sociale”.

Vita: Due filoni culturali e politici ben diversi, quindi, che s'incontrano. In lei quale dei due prevaleva?
Consolo: In me prevaleva la cultura di sinistra ma non certo per tradizione familiare. Mio padre era un magistrato a lungo procuratore generale della Repubblica di Brescia che mandava i carabinieri a prendermi quando, da minorenne, scappavo col ragazzo. Sono figlia della passione civile degli anni 70: avevo vent?anni e non potevo che stare dalla parte di quelli che contestavano il sistema. Ero femminista, andavo in giro con gli zoccoli e lo scialle, facevamo autocoscienza, lavoravamo con donne umiliate e offese: ecco dunque che nascono il circolo Udi, la cooperativa di donne, la cooperativa di servizi sociali. In questa catena, naturalmente, arriva anche il turno dell'impegno politico: ho fatto politica nel Pci e sono stata consigliere comunale a Brescia nel corso degli anni 80.

Vita: A questo punto non ne dubitavo. L'esperienza diretta della politica come l'ha vissuta?
Consolo: Come un fallimento totale. Eppure era un consiglio comunale che contava, non come quelli di oggi, dove fa tutto la giunta, ma le logiche della politica dei partiti erano talmente stringenti per cui o ci si stava dentro o no. Mettevo in piedi sottogruppi misti tra consiglieri di maggioranza e opposizione, naturalmente sui servizi sociali, d?intesa anche con la giunta Dc, antesignana di molte iniziative, a cominciare dall?assistenza domiciliare. Al mio partito tutto questo lavoro bipartisan non piaceva?

Vita: Curiosa questa sinistra storica che, nonostante l?antica tradizione mutualistica e cooperativa, quando si trova di fronte la nascita organizzata del Terzo settore s'irrigidisce, s'innervosisce quasi.
Consolo: Secondo me questo avviene perché preoccuparsi degli altri vuol dire avere una capacità di empatia, d?identificazione con i soggetti con cui lavori cui si arriva o per cultura, grazie a famiglie che ci hanno cresciuti insegnandoci che si deve aiutare chi sta peggio di noi. Perché se siamo stati fortunati dobbiamo dedicare una parte di queste fortune a pareggiare i conti nel mondo, oppure perché lo abbiamo vissuto sulla pelle e si vuole risolvere assieme i problemi nostri e altrui. La tradizione socialista nasce da classi sociali che dovevano lottare per acquistare dignità, così la cooperazione laica nasce tra soggetti che oggi noi diremmo “svantaggiati”, le classi povere, che, invece che della lotta sindacale, prendono la strada del mettersi insieme per rispondere ai “propri” bisogni, spesso essenziali.

Vita: E la cooperazione cattolica?
Consolo: Nasce nelle campagne, ma anche nel credito, viene cioè dai diseredati, ma anche dalle banche di credito cooperativo. Si tratta di un approccio all?esistenza che dice: devi essere grato di quello che hai e cercare di far star meglio i più deboli ma tu non sei debole, non foss?altro perché hai Dio. Insomma, la cooperazione laica è mutualistica nel suo fondamento, nel senso di aiuto reciproco, quella cattolica nasce rivolta al dare. Con tutti i possibili lati negativi che questo comporta, carità pelosa e beneficenza in testa. Ma è più forte perché continuamente alimentata da valori trascendenti su cui si fonda l?esistenza e perché ha sempre trovato nella Chiesa un potentissimo punto di snodo e di canalizzazione. Non altrettanto quella laica, che spesso ha dovuto lottare contro il suo stesso bacino culturale, quello dei partiti socialisti e comunisti, per i quali veniva prima la lotta (il sindacato), e poi la cooperazione. La Legacoop, dove ho lavorato a lungo, era considerata alla stregua del carro delle vettovaglie che segue gli eserciti. Gli eroi erano altri, quelli che andavano all'assalto. Da questo punto di vista fare cooperazione ha avuto ben altro peso nella storia della Dc e dei suoi satelliti: basti pensare al ruolo della finanza cattolica.

Vita: Lei si definirebbe cattolica?
Consolo: No, ma mi definirei una persona che sa che c'è qualcosa oltre il contingente e che lo tiene presente sempre. Se accetti che esistono valori che trascendono la vita umana, te ne viene una grande forza. E questo è molto importante anche per continuare a lottare. Potevo restare nella mia area sociale privilegiata di provenienza, sposarmi e fare figli, che pure ho fatto, senza cercare di tenere assieme politica e volontariato, far diventare la mia esperienza patrimonio di un'organizzazione più grande. Prima pensavo di fare qualcosa per migliorare il mondo, ora penso che fare del bene serve anche a te.

Vita: D'accordo, ma a cosa ha rinunciato?
Consolo: Si rinuncia a un po' di leggerezza nella vita. Io sono riuscita a fare quasi tutto anche grazie a una serie di circostanze favorevoli: mi sono sposata con un uomo che mi ha aiutato nel mio desiderio di autonomia personale e volontà di costruire un percorso, ma non sono certo stata una moglie facile. Ero una moglie che non guadagnava, ma che usciva di mattino presto di casa per fare volontariato, che aveva i bambini piccoli ma la sera tornava a casa di notte perché c'era consiglio comunale. Trovare un compagno di vita che accetta tutto questo non è facile: sono stata fortunata, in quegli anni l'ho trovato.

Vita: Le donne, eccezion fatta per lei, sembrano fare fatica anche nel sociale. Il Terzo settore è sessista?
Consolo: Innanzitutto la ringrazio per la domanda. Sì, è molto sessista. Temo che i percorsi al suo interno non siano molto diversi da quelli della società, anzi la rispecchiano. Le donne nel Terzo settore sono maggioranza dal punto di vista dei voti (in fondo si tratta di organizzazioni democratiche?) ma lavorano nei settori che contano meno (cultura, informazione, cooperative sociali di base) e a livello di rappresentanze sono pochissime: rispecchiano le difficoltà di percorsi di carriera della società, non esistono percorsi di facilitazione e i meccanismi di molte organizzazioni sono quelli classici. Sono stata presidente e amministratore delegato di molte cooperative: le logiche dei colleghi maschi sono totalmente differenti dalle nostre. Con difficoltà riesco ad entrare nei contenuti dei progetti con loro. Ci riesco con i tecnici maschi più che con i rappresentanti del Terzo settore maschi. Immigrati, asilo nido, inserimento lavorativo: il “come” si fanno questi progetti, che hanno bisogno di saperi specifici e di una forte adesione valoriale all'obiettivo finale (il matto, l'anziano, il bambino), a loro quasi non interessa. Interessa invece la dislocazione delle risorse e la possibilità di esercitare potere. Non demonizzo affatto il potere, ma credo serva solo per fare delle cose. Quando non mi serve per ottenere un inserimento lavorativo in più, un'impresa sociale in più, non m?interessa per finire sul giornale o per mettere un marchio sul convegno. Ho l'impressione invece che l'impostazione contraria sia quella che premia e la più diffusa. Dirlo a oltre cinquant?anni mi fa tristezza, ma è così.

Vita: C'è un punto di svolta nel passaggio dal volontariato classico al non profit: è l'impresa sociale?
Consolo: Il passaggio dal volontariato alla gestione di fatti economici è già avvenuto da un bel pezzo. Il problema del passaggio all?impresa sociale implica più trasparenza e più oggettivizzazione dei processi. Dire che vent?anni fa il volontariato non gestiva dinamiche di tipo economico è dire una grande fesseria. La differenza è stato il passaggio, avvenuto in circa vent?anni in modo quasi clandestino, dal considerare il dato economico di nessuna importanza al capire che dei soldi bisognava rendere conto non solo ai soci ma all?intera comunità. Questo vuol dire imparare a gestire processi di trasparenza e vuol dire valutazione, migliorare i servizi, fare formazione, eccetera. Il rischio è che, in tutto questo strutturare, qualcuno perda le motivazioni originali. Il rischio c'è ma l'importante è dirsi e sapere sempre che tutta questa strutturazione non serve solo al “miglioramento delle performance” ma a lavorare in modo produttivo e trasparente, cioè a fare di più e meglio per gli utenti finali dei servizi.

Vita: Insomma, cuore e cervello, mezzi e fini. Ma non si rischia di perdere di vista l'utente finale?
Consolo: Tenere insieme capacità e affetti non è facile, ma l'uso del tempo e delle risorse deve essere efficiente, non solo efficace. Di solito occuparsi delle relazioni e dei sentimenti viene tenuto separato dal saper fare una cosa bene e in un tempo inferiore, principio base dell'efficienza, ma nell?impresa sociale i due aspetti possono davvero integrarsi. Questa è la sua novità e la grande sfida che rappresenta. Come tutte le cose che si contaminano sono sempre le più difficili da fare.


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