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I giovani dimenticati, una vergogna sociale

La questione giovanile: dal bullismo alle stragi del sabato sera, dalla violenza gratuita allo sconfinamento senza reti nelle esperienze delle nuove droghe ...

di Giuseppe Frangi

E' un grande tema che sta sotteso al nostro convivere e che nessuno osa mettere a fuoco. È un tema affascinante ma insieme esplosivo. Un tema da cui ci si tiene però a distanza nella consapevolezza di non conoscere più ?l?oggetto?. Questo tema è la questione giovanile. La cronaca ce lo ributta davanti in modo insistente, sotto le voci più varie, in genere tutte connotate di negatività o di dramma. Si va dal bullismo alle stragi del sabato sera, dalla violenza gratuita allo sconfinamento senza reti nelle esperienze delle nuove droghe. Alla parola giovane si collegano sempre categorie chiuse al futuro: precarietà, infinita adolescenza, immaturità nei rapporti. I giovani sembrano messi in un angolo, privati di soggettività, tagliati fuori da ogni tavolo in cui si decidono gli assetti futuri della nostra vita collettiva. Non si tratta ovviamente di auspicare forme di rappresentanza che hanno un valore purtroppo abbastanza patetico e consolatorio, com?è accaduto nel recente dibattito sulle pensioni (che si è appunto chiuso riversando sulle generazioni future i problemi che oggi la società degli adulti non ha il coraggio di affrontare).

Ci sono stati anni nel nostro recente passato in cui la questione giovanile dettava legge. Era la grande questione sulla quale la società si confrontava, spesso in modi violentemente conflittuali. I giovani erano apparsi come un soggetto sociale inedito, portatore di un?attesa e anche di stili di vita in netta rottura con le generazioni passate. Quello degli anni 70 e 80 fu uno scontro vitale, macchiato anche di violenza e di sangue; ma generatore di nuove esperienze vitali, di una liberazione da consuetudini sociali che erano diventate come delle inutili camicie di forza. I giovani chiedevano un di più di idealità che la società, bloccata nel formalismo di una borghesia ingessata, non riusciva più a dare.

Poi arrivò un?altra stagione, prefigurata con la solita intelligenza profetica da Pier Paolo Pasolini: i giovani allora diventarono oggetto ambìto del nuovo potere vincitore, quello consumistico. Diventarono target di mercato, ricercato e coccolato. La loro carica trasgressiva venne depotenziata di ogni energia di rottura. Il marketing spregiudicato aveva vinto. Con qualche ragionamento malizioso, si potrebbe anche pensare che questo è stato il modo con cui il mondo adulto li ha riacciuffati, li ha riportati all?ordine. A quel punto ci siamo tutti accomodati nella certezza di aver ?risolto? la questione, di averla riportata nell?alveo di rapporti ben governati. Invece la questione ha continuato a pulsare latente, sotto la pelle della nostra convivenza. I giovani, depauperati dall?assedio del nuovo potere consumistico, sono una generazione privata di parola, afona. Ma ci siamo chiesti cosa nasconda questo loro mutismo? Questa loro apparente acquiescenza a tutte le mode? Non ci è mai capitato di guardare in faccia i nostri figli e di scoprirli lontani, diversi, quasi imprendibili? Ma possiamo accettare che una cesura di questo tipo segni la nostra società? O non è forse venuto il momento di rimettere in campo una passione verso il destino delle generazione che verranno?

Questa è la grande, vera questione che la nostra società ha davanti e che non può più eludere. Questo significa ben più che tessere un dialogo, significa dimostrare finalmente un interesse. Significa avere a cuore i nostri giovani: che loro vedano sulle facce degli adulti un amore che sino ad oggi è mancato. Poi in nome di questa affezione si potranno anche ribaltare le gerarchie di priorità su cui abbiamo costruito un assetto sociale non solo illusorio ma soprattutto insopportabilmente cinico.


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