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Liliana, dal Machu Picchualla cima della Cisl Nata 35 anni fa in Perù, laureata in legge, è in Italia dal 1993. La Ocmin ha idee chiare: «La priorità? Conciliare famiglia e lavoro»

Svolte Una peruviana alla testa delle donne del sindacato

di Redazione

È peruviana, ha 35 anni, una laurea in Giurisprudenza, un marito italiano e due figli, di 6 e 5 anni. E dal 17 dicembre è la nuova coordinatrice nazionale delle donne della Cisl. Liliana Ocmin Alvarez è la prima donna immigrata a ricoprire una carica nazionale in un organismo sindacale: «Un grande segnale», commenta lei. «Gli immigrati escono dalla nicchia dell’impegno settoriale per occuparsi trasversalmente di tutti i temi nazionali. Ringrazio la Cisl per il coraggio di questa scommessa dall’altissimo valore simbolico».
Non ripudia i suoi anni all’Anolf, la branca della Cisl che segue le problematiche degli immigrati, né quelli alla guida del Coordinamento studenti stranieri, ma la Ocmin tiene a precisare che la sua condizione servirà da leva per avviare una cultura riformatrice nei confronti dell’immigrazione. Il primo obiettivo sarà quello di «sfatare il pregiudizio che vede gli immigrati come bassa manovalanza. Gli stranieri, donne incluse, hanno spesso una specializzazione professionale che non viene riconosciuta in Italia: la burocrazia italiana anzi penalizza chi ha pretese lavorative». Si tratta di una lezione che ha imparato sulla propria pelle: è arrivata in Italia nel 1993, a soli 19 anni, per completare i suoi studi di Giurisprudenza, ma ci ha messo un anno per riuscire a iscriversi all’università, causa complicazioni burocratiche. Era affascinata da Giustiniano e dal diritto romano, «poi quando sono arrivata qua ho fatto presto a capire che, nonostante i padri nobili, la cultura della legalità in Italia era diversa da quel che mi immaginavo».
Il grande impegno di Liliana riguarderà però – ovviamente – le donne. Nel suo discorso da neo eletta ha affermato che «valorizzare i talenti femminili non è solo una questione di giustizia di genere, ma una necessità per il Paese». Al telefono spiega che valorizzare i talenti femminili non vuol dire solo aumentare le possibilità di accesso al mondo del lavoro: pensa al mondo della ricerca, e anche alla creazione di una associazione per donne inoccupate, che valorizzi la loro partecipazione alla vita civile e al volontariato, soprattutto al Sud, dove troppe donne giovani un lavoro non lo cercano neppure. E poi, naturalmente, il grosso e fondamentale capitolo della conciliazione tra famiglia e lavoro: servono più servizi di qualità, un sostegno alla non autosufficienza più consistente delle badanti, un part time ugualmente accessibile agli uomini e alle donne e – udite udite – «un vero progetto di educazione alla cura rivolto agli uomini». Sono queste le precondizioni per parlare di pari opportunità. Anche questo lo ha sperimentato in casa: «Io spesso sono via per lavoro, ma ai bambini questo non crea problemi. Devo dire che mio marito è straordinario».


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