Attivismo civico & Terzo settore

I miei alunni nella pancia della Bovisa

Una maestra visita i suoi alunni rom al campo, alla vigilia di un nuovo sgombero

di Sara De Carli

Sul numero in edicola Vita racconta di come maestre, genitori e alunni delle tre scuole della zona di Lambrate si siano mobilitati pubblicamente per difendere il diritto ad andare a scuola dei bambini rom dell’ex campo di via Rubattino. Molti di essi, dopo lo sgombero, sono finiti a Segrate, da cui sono stati nuovamente sgomberati lo scorso 15 febbraio. Alcuni altri bambini, invece, sono disseminati per la città. Come i fratellini C. e R., che sono alla Bovisa. R. è il bimbo la cui nuova maestra aveva scritto una lettera pubblica al Corriere della Sera, C. una ragazzina che ha cambiato cinque scuole a Milano in un anno e mezzo. L’amministrazione ha annunciato per oggi un nuovo sgombero. Ieri le maestre sono andate a trovare i loro alunni. Ecco il resoconto di questa giornata (nella foto un’immagine dell’area di via Durando da cui i rom sono stati allontanati il 10 marzo, sotto la neve).

Credevo di aver visto un ventaglio esauriente di posti dove i rom continuamente scacciati si accampano, compreso il girone dantesco della fabbrica crollata di Rubattino tra macerie e topi (20 novembre 2009).

Quello che ho visto oggi è molto, molto peggio.

Zona Bovisa, un edificio a più piani mai terminato, di cui esistono solo pilastri d’acciaio verticali e orizzontali e solette. Il tutto evidentemente abbandonato da anni.

Dal marciapiede spostando una lamiera si accede a un prato incolto, lo si attraversa e si arriva all’edificio: nessuna traccia dei rom, non uno, non una voce. Si costeggia il palazzo, cioè il suo scheletro, tra sporcizia e masserizie e si comincia a scendere uno scivolo, fino ad infilarsi sotto il palazzo dove nella semioscurità vivono 7 o 8 famiglie rom. Sottoterra e con la pochissima luce che filtra, con le correnti fredde, molto fredde create da spazi pieni e vuoti.

Ci abituiamo alla poca luce (siamo in quattro, tre maestre e una signora volontaria) e cominciamo a veder tende a igloo, bambini, persone: fantasmi, ombre spaventate che non escono nel prato dove il sole rende la temperatura meno rigida per non essere visti. Il popolo del sottoterra milanese. Tutti ci parlano del freddo, ma ancora di più dello sgombero annunciato per domani. Nessuno si lamenta, nessuno ci chiede alcunchè.

Mentre siamo lì una signora rom pulisce i fornelli (l’acqua la prendono alla fontanella della piazza vicina), cambia i fogli di  giornale che fanno da tovaglia, scalda una pentola d’acqua e lava le stoviglie. Un’altra scopa il pavimento di cemento: lo spazio in cui stanno è pulito, nelle tende regna l’ordine, ma è un posto da topi, siamo sottoterra al freddo e all’umido puzzolente.

C., nostra scolara di 10 anni, ci chiede un libro per studiare: lei a scuola ci andava, ma i continui sgomberi hanno reso impossibile la frequenza. Ci chiede quando potrà tornare. Per tutto il tempo che stiamo lì non uscirà mai dalle braccia della sua maestra. R., 6 anni, quando vede la sua maestra si ferma immobile e resta così per un po’, ma intanto la faccina gli si trasforma e diventa un unico grande sorriso, sembra che gli scoppi la luce dentro. Poi le corre incontro e le salta in braccio.

Verso di noi solo rispetto, tanto rispetto e grande educazione, verso i bambini coccole e tenerezza.

Noi ce li coccoliamo i nostri scolari e anche i loro fratellini. Mi chiedo in quale altra parte del mondo le persone sono costrette a vivere così e con la paura di essere scacciati anche dai sotterranei: forse nelle fogne di Bucarest? Forse nell’Africa più ingiusta? Forse nelle favelas del Brasile?

Ci è difficile venire via da lì, e quando usciamo non commentiamo. Una donna rom ci augura “buon 8 marzo”.

Una maestra, 7 marzo 2010


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