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Comfort care, un’alternativa di vita

È l'attività medica che accompagna i neonati con brevissima attesa di sopravvivenza. E dà dignità a quei pochi istanti di vita. Una disciplina praticata negli Usa e raccontata da Elvira Pallavicini, neonatologa italiana della Columbia University.

di Antonietta Nembri

La vita ha una dignità sempre. Anche se è brevissima e il suo inizio si confonde con la fine. A interpretare questo pensiero è Elvira Parravicini, medico neonatologo alla Columbia University di New York. Al Meeting di Rimini Parravicini, definita “la custode degli angeli” è stata la protagonista di un incontro dall’evocativo titolo: “La vita: esigenza di felicità. Testimonianze”.
Ma di quale felicità parla la neonatologa che da venti anni lavora negli Usa? Per scoprirlo l’abbiamo incontrata e ci siamo fatti raccontare come è nato il comfort care, attività medica che fa sì che un neonato, un bimbo che ha nessuna speranza di sopravvivenza, sia curato e amato in tutti gli istanti della sua vita, anche se pochi. «Come neonatologa seguo i genitori durante la gravidanza, un lavoro che facevo anche prima di andare negli Stati Uniti, quando ero al San Gerardo di Monza. Questi incontri danno molta speranza anche quando i bambini sono destinati ad avere problemi: come medico io mi occupo di questi neonati» racconta Parravicini.

Quando è nato il comfort care?
«Nel mio ospedale in America si discutevano i vari casi e il ginecologo presente prospettava sempre come soluzione l’aborto. A quel punto mi sono sentita impotente e ho deciso di non partecipare più a queste riunioni di gruppo. Facevo il mio lavoro, assistevo i neonati. Poi dopo un paio di anni la persona responsabile della diagnosi prenatale mi ha chiesto di tornare a partecipare alle riunioni. E ho sentito come questo invito fosse in realtà il richiamo del Mistero a tornare indietro. Mi sentivo morire, ma ad una riunione si è parlato di donne che nonostante tutto non volevano assolutamente abortire. Era il 2006 e a quei neonati abbiamo applicato per la prima volta il comfort care».

In cosa consiste esattamente?
«Faccio il mio lavoro di medico: li conforto. È stata una piccola rivoluzione. La prima cosa è l’accoglienza, occorre far entrare i genitori, i nonni, un neonato desidera essere tenuto in braccio, abbracciato. Poi un bambino desidera mangiare, tutti i bambini si sentono bene quando hanno del latte nella pancia e se non riesce a farlo lo aiutiamo e poi se occorre facciamo anche la terapia del dolore. È stato uno sconvolgimento delle regole della terapia intensiva».

Il suo agire non rischia di essere confuso con l’accanimento terapeutico?
«No, anche perché a questi pazienti che hanno una diagnosi di vita brevissima diamo un supporto minimale, non ci accaniamo. Ma a volte avvengono miracoli».

Parravicini è molto affezionata a un esempio: a una bambina destinata a morire in pochissimo tempo a causa di una gravissima infezione intestinale, oggi Alejandra ha cinque anni e va alla scuola materna. Ma non è l’unico caso. Anche se come spiega «il goal, l’obiettivo della terapia non è la guarigione, ma permettere a Dio di agire».

E per chi non ha fede?
«Nel mio ospedale ho iniziato da sola, poi pian piano infermiere e personale sanitario mi hanno chiesto di lavorare insieme. E non sono tutti credenti. In comune c’è un modo di affrontare la vita pensando che ogni persona è amata, ha una dignità».

È un po’ l’idea dell’hospice?
«Il comfort care è un trattamento, ha una sua dignità professionale ed è una tecnica da diffondere. In fondo chi ha iniziato a fare gli hospice per i malati inguaribili, lo ha fatto perché guardava alla dignità di quei pazienti che potevano comunque essere curati»

E le maggiori resistenze, da dove arrivano?
«Dall’ambito medico, alcuni pensano il comfort care prende del tempo, va contro il lavoro della terapia intensiva, ne sconvolge le regole perché il suo obiettivo non è il guarire, ma dare dignità al vivere. E poi i genitori sono felicissimi».

Come viene vissuto dal suo ospedale?
«Negli Stati Uniti la medicina è un business, al sistema interessa la soddisfazione del paziente e questa attività rende i genitori molto felici e questo è un punto a favore».

Il comfort care è esportabile? Anche in Italia?
«L’ideale sarebbe che venisse applicato in modo sistematico, che entrasse nei protocolli. Il problema è “etico” perché molti pensano che non ne vale pena. Io dico invece che fai tutto questo se pensi che un bambino, un neonato fragilissimo ha la tua stessa dignità».


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