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La fattoria antinarcos di Papa Bergoglio

Da cardinale di Buenos Aires, Bergoglio scelse 20 dei suoi preti migliori e li mandò tra i poveri e i narcotrafficanti, nelle villas miserias. Lui stesso ci passava tutte le feste più importanti. Come il giovedì santo del 2010

di Sara De Carli

Il giovedì santo del 2010, più o meno come oggi tre anni fa, Jorge Mario Bergoglio, che allora era cardinale di Buenos Aires e oggi è papa Francesco I, lo ha trascorso tra le baracche di villas miserias, nella periferia sud della sua città. Appena poteva, scappava lì, in visita a uno dei progetti che più fortemente aveva voluto. Aveva scelto venti tra i suoi preti, per destinarli alle baraccopoli della città. I migliori, si dice. Padre José Maria Di Paola – noto semplicemente come padre Pepe – è il coordinatore di questo progetto pastorale. Dei «migliori» ride, ma spiega: «Di certo è un progetto a cui l'arcivescovo tiene moltissimo, destinandoci più sacerdoti che mai. Lui stesso viene di persona ogni volta che c'è una festa importante».

Padre Pepe con l’Italia ha un legame speciale: la sua vicaria è sostenuta dalla Caritas di Como e la sua faccia gli italiani l’hanno conosciuta nello spot della Cei sull’8 per mille. Papa Ratzinger, poi, lo invitò a Roma a portare la sua testimonianza alla chiusura dell'anno sacerdotale, nel giugno 2010. Per dire, davanti al Papa e alle centinaia di migliaia di sacerdoti sparsi in tutto il mondo, cosa vuol dire essere prete oggi.

Volto a metà tra il Jeremy Irons di Mission e l'Enrique Irazoqui di Pasolini, 49 anni, nonostante la barba, gli scarponi e una minaccia di morte pendente sul capo, a firma dei trafficanti di droga della villas miserias in cui tiene parrocchia, nella periferia sud di Buenos Aires, l'etichetta di prete di frontiera gli piace poco. «Faccio il prete, come tanti. Sto vicino alla gente, cerco di dare una risposta a chi bussa alla porta, che si tratti di un battesimo o di un pasto caldo». Nella Villa 21, quattro sacerdoti su due parrocchie, 60mila abitanti in tutto, padre Pepe (da poco trasferito al Nord) ha vissuto per quindici anni, dal 1997. Ce lo ha mandato proprio Jorge Mario Bergoglio.

 

La droga delle favelas
Le villas miserias, le favelas della città, sono un formicaio per 300mila persone. Gli argentini sono pochissimi. La maggior parte viene da Paraguay, Bolivia, Perù. «Come tutti i migranti è gente molto povera: viene, si installa su un terreno, costruisce una baracca», dice padre Pepe. Lo Stato non c'è, «e quando lo Stato per quarant'anni non dà case, luce, gas, autobus, si crea una organizzazione parallela. La gente gira armata, sì, però non direi che i tassi di omicidio siano più alti della media argentina». In queste condizioni, la Chiesa diventa l'ovvio e naturale interlocutore. Ben al di là della religione.
Nella sola parrocchia di padre Pepe i cuochi volontari cucinano ogni giorno 600 pasti da distribuire ai più poveri. Quattrocento bambini frequentano il centro di aiuto allo studio, altri mille ragazzi seguono il "programma esploratori", una sorta di scoutismo in favelas, mentre i corsi di formazione professionale, con le cinque microimprese collegate – dalla panetteria alla tipografia, alla produzione di strofinacci – sono frequentati da quattrocento alunni ogni semestre, ragazzi e ragazze tra i 16 e i 25 anni. «Da sempre il nostro lavoro è improntato all'idea di "prevenzione", a 360 gradi».
Dal 2001, però, il nemico di padre Pepe si chiama paco. «La crisi argentina ha segnato uno spartiacque», ricorda. «Da quel momento la droga ha cominciato a circolare in maniera massiccia; con essa è dilagata la violenza e la gente in strada, senza alcun riferimento familiare, è quasi raddoppiata». Il paco, "pasta de coca", è la droga dei poveri, quel che resta dalla lavorazione della cocaina per i mercati ricchi. Ad usarla sono soprattutto ragazzi. La parrocchia comincia a costruire un percorso di disintossicazione.


Una fattoria contro il paco
L'Hogar de Cristo è un piccolo centro diurno, con un prete, uno psichiatra, un operatore terapeutico. Quando i ragazzi si sono decisi, vanno in una fattoria protetta, per sei mesi, dieci persone per volta. Fanno disintossicazione e un percorso spirituale. Lo sottolinea proprio, padre Pepe: nell'équipe antidroga c'è sempre un sacerdote. «La dipendenza dalla droga è una questione spirituale, legata al non aver colto il senso della vita. La prima persona che il giovane cerca è il sacerdote, non un operatore. Ovvio che i professionisti sono fondamentali, ma è altrettanto decisiva questa persona di fiducia che accompagna con affetto il ragazzo durante il cammino». La fattoria funziona. La metà dei duecento ragazzi che nei primi due anni avevano affrontato il percorso, ha abbandonato la droga. Sette sono rimasti addirittura ad aiutare, come volontari. Il progetto è quello di ingrandirsi. Di mettere su una grande fattoria sociale che possa accogliere non più dieci ma cento ragazzi ogni semestre. La struttura c'è già, una vecchia scuola agricola della Congregazione di don Orione, donata alla diocesi, con 70 ettari di terra attorno. L'idea è di costruirci attorno tutta la filiera produttiva, incluso l'allevamento di maiali e mucche e una fabbrica di salumi. Il ministero sociale argentino sembra disposto a metterci le figure professionali,  il cardinal Bergoglio ci metterà i preti. Anche da Roma, c’è da scommetterci.


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