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Battaglia: “L’Egitto di al-Sisi odia i giornalisti indipendenti”

La giornalista esperta del mondo mediorientale descrive il quadro politico complesso del Cairo. Stretto nella tenaglia dei due fondamentalismi –religioso e militare- il Paese fatica a individuare una terza via

di Redazione

 
Per capire cosa stia accadendo sotto il cielo egiziano, un buon punto di partenza è rivolgersi a chi, con passione e costanza, si impegna a descrivere la realtà con obiettività, mettendo da parte ogni forma di pregiudizio ideologico. Senza "aiutini", giorno dopo giorno Laura Silvia Battaglia si sta conquistando una credibilità sul fronte degli esteri che colleghi più blasonati non possiedono. La lista delle sue collaborazioni è lunga, ci limitiamo dunque a segnalarne solo alcune. Tra queste, la corrispondenza da Sanaa per l'agenzia video-giornalistica americano-libanese Transterra media, e per gli americani The Fair Observer e Guernica magazine. Per i media italiani, collabora stabilmente con quotidiani di carta stampata (Avvenire, La Stampa), network radiofonici (Radio Tre Mondo) e televisivi  (Rai News 24). Ha un sito, Battgirl, in cui racconta col suo stile le guerre nel mondo. 
 
 
Al-Sisi è il nuovo Mubarak o è peggio di Mubarak?
«Al-Sisi (nella foto) incarna la grande passione che gli egiziani nutrono nei confronti della gerarchia militare: considerata la classe sociale di maggiore garanzia della stabilità dello Stato, è ritenuta essa stessa lo Stato. L’orgoglio dell’essere egiziani  è superiore rispetto a qualsiasi altra cosa, e si identifica proprio con la forza, l’organizzazione, la struttura capillare dell’esercito. Per cui diciamo che al-Sisi è più che Mubarak: molti cittadini vedono in lui il garante dell’ordine».
 
Quali sono gli episodi più significativi che testimoniano la violenza dei militari?
«Parliamo di stretta attualità, di un episodio accaduto oggi (ieri per chi legge, n.d.r.): la polizia è entrata in un centro famoso al Cairo, Egyptian Center for Economic and Social Rights e ha arrestato tutto lo staff dell’ufficio stampa. La classe militare identifica l’ordine con la repressione totale nei confronti di ciò che rimane dei Fratelli Musulmani e dei loro simpatizzanti. Possiamo dirlo senza paura di smentita: attualmente in Egitto c’è una dittatura militare, con tutte le caratteristiche di una dittatura militare. L’elemento che più di tutti ci porta a definire in questi termini l’attuale governo è l’aver tappato la bocca ai media fin dall’inizio. Noi giornalisti che siamo stati in Egitto tra la fine di luglio e la metà di agosto siamo stati sottoposti a controlli senza precedenti: oltre a imbarazzanti limitazioni della libertà, requisizione del nostro materiale, moltissimi di noi hanno rischiato la vita in quei frangenti».
 
Raccontiamo più nel dettaglio questa “guerra” al giornalismo indipendente
«L’Egitto in questo momento è un Paese che, attraverso le sue dirigenze, fa in modo di limitare la libertà di stampa; un Paese in cui un giornale governativo sostiene che i giornalisti stiano rovinando l’immagine della nazione. Poi ancora i nostri colleghi vengono arrestati su mandato dell’esercito; perquisiti dentro le proprie case; addirittura accusati di terrorismo solo perché si trovavano dentro il campo di Rabaa nei giorni del massacro, e solo perché lavoravano per il canale egiziano di Al-Jazeera. Certo in Italia abbiamo i nostri problemi, ma non capita che una persona venga sbattuta in galera se va in piazza a parlare male di Letta».
 
C’è stata un’occasione, durante i giorni del massacro a Rabaa, in cui hai rischiato la vita. Parliamone. 
«Quei giorni di metà agosto sono stati terribili, a detta non solo mia ma di tutti i giornalisti che erano con me:  è stato anche peggio che durante i giorni della Rivoluzione. Noi in quanto testimoni eravamo sgraditi da chiunque: prima di tutto ai militari perché era necessario non creare il “caso” dei  Fratelli Musulmani vittime della carneficina di Rabaa. Ma eravamo scomodi anche per i Fratelli e per i salafiti. Nella stessa giornata, gli episodi accaduti a due colleghi fotografi sono la prova provata della follia di entrambe le fazioni politiche: uno di loro ha subito un linciaggio gravissimo da parte di un gruppo di Fratelli che fuori da Rabaa aveva ucciso un rappresentante della polizia segreta. Questo mio collega, dopo aver iniziato a fotografarli, è stato identificato e circondato da quindici persone, che l’hanno messo a terra e minacciato di volerlo uccidere immediatamente. Per fortuna è passata una persona che lo ha salvato: gli hanno lasciato la macchina fotografica, ma gli hanno levato tutto quello che aveva. Poi c’è la seconda “avventura”, capitata a un altro mio collega. Il giorno successivo alla manifestazione in Ramses Street è stato sparato dall’esercito egiziano: volevano sparare ai Fratelli Musulmani ma c’è andato di mezzo pure lui. Questa persona ha ancora oggi un proiettile nel corpo. Portato immediatamente in ospedale, cosa è successo? Chi lo trasportava gli ha tolto la scheda, così gli hanno levato la testimonianza concreta  di quanto aveva visto, ovvero una carneficina. Tutto questo, bisogna dirlo, non sarebbe mai accaduto nell’era di Morsi: noi giornalisti potevamo entrare e uscire, e non eravamo silenziati. Non c’era, insomma, un controllo estremo e soffocante». 
 
L’impressione è che il consenso dei militari stia in parte scemando…
«A due mesi dai moti rivoltosi, molti egiziani si stanno convincendo che i militari non traghetteranno la democrazia nel Paese. Il problema qual è? Che nel frattempo Morsi, senza meriti,  sta diventando un’icona, viene considerato un martire. Tantissima gente mi scrive: “I love dr Mursi”, e tutto questo amore non trova giustificazione perché si è dimostrato un politico senza spina dorsale. Sicuramente colpisce il contegno dell’uomo, che sta manifestando durante la prigionia, ma questo comportamento dignitoso non fa che aumentare una popolarità immeritata: non avendo esperienza governativa alle spalle, la “galassia Morsi” si è dimostrata incapace a fronteggiare le difficoltà. I militari, di contro, sono stati educati alla politica da sempre».
 
Tutte le formazioni politiche che ruotano attorno all’Islam godono di enorme consenso tra la gente. Se negli ultimi cinquant’anni si fossero tenute elezioni regolari, avrebbero prevalso loro? 
«Senza dubbio. Non ci si domanda mai quante persone vivono in Egitto: stiamo parlando di milioni di persone, che solo in piccola parte sono in grado di partecipare in maniera critica alla vita politica. Quanti di loro hanno sviluppato una pluralità di punti di vista per cui, quando vanno a votare, sono capaci di scegliere chi è il migliore? Pochissimi. È gente che  nasce nei villaggi più sperduti senza alcun tipo di diritto; mai andati a scuola, perché al tempo di Mubarak non veniva incentivata l’educazione. A tutto questo aggiungiamo un elemento fondamentale: tra le classi sociali meno abbienti c’è il senso, molto forte, dell’appartenenza alla comunità islamica. Questo ultimo punto resta incomprensibile agli occhi degli occidentali. Allora, se molte di  queste persone si sono convinte che mettendo a repentaglio la propria vita avranno una vita migliore nell’aldilà, è chiaro che coi militari diventa un dialogo tra sordi, mondi troppo lontani che non possono avvicinarsi»
 
Si intravede all’orizzonte una “terza via”, tra Islam fanatico e strapotere dei militari?
«È una domanda a cui non so dare una risposta precisa, nel senso che stando sul posto si capiscono molte più cose, ed io non vado fisicamente in Egitto da un po' di tempo. Se posso avanzare un’ipotesi, francamente non credo che ci siano le basi per una “terza via”. C’è da dire però che i media occidentali usano la parola Fratelli Musulmani con molta leggerezza: è una semplificazione estrema, cose se esaurissimo l’arco costituzionale della destra italiana col partito di Alfano. Il quadro è questo: c’è la galassia dei sostenitori di Morsi, ma dentro questa galassia ci sono dei musulmani convinti -che non vogliono mischiare la politica con la religione -e ci sono i Fratelli Musulmani, che hanno una storia lunghissima e anche una serie di rivendicazioni. Poi ci sono i salafiti: il loro partito, al-Nur,  è l'unico ad aver spinto verso un agreement nei confronti di al-Sisi. La differenza tra Fratelli Musulmani e al-Nur è questa: i primi vogliono portare i valori personali nella politica; i secondi dicono: “Pensiamo solo alla religione, non immischiamoci con la politica”. In sostanza, questi ultimi non sono sostenitori dell’Islam politico». 
 
Ma alle prossime elezioni, che si terranno nel 2014, sarà un trionfo dei generali?
«I militari certissimamente rimarranno la forza predominante in qualsiasi ambito della vita sociale: non c’è foglia che si muova senza che l’esercito lo voglia. La domanda che poni è interessante perché gli egiziani si sono fidati dei militari alcuni mesi fa, ma non tutti quelli che allora si son fidati dei militari hanno mantenuto lo stesso atteggiamento.  Un’altra domanda da porsi è: sarà consentito all’area dei morsiani di presentarsi alle elezioni? E i vecchi sostenitori di Mubarak, che peso avranno?». 
 
Il culto di al-Sisi assume degli aspetti anche pittoreschi, ad esempio i cioccolatini col faccione del generale…
«Incontrerai sempre al centro del Cairo un anziano che ti dice: “Benedetto al-Sisi”. In Egitto è rimasto il desiderio di essere guidati da un faraone. Ma al di là degli aspetti pittoreschi che fanno sorridere, ciò che realmente preoccupa è il fatto che chi ha il culto di al-Sisi approva le restrizioni alla libertà portate avanti dai generali.  Io leggo dei tweet che mi lasciano semplicemente perplessa: un mucchio di gente  che parla bene dei rastrellamenti ordinati dall’esercito».
 
Qual è la svolta per l’Egitto che tu personalmente auspichi?
«Fermo restando che non è mio diritto fornire opinioni apodittiche su un futuro che io, come nessun’altro, è in grado di prevedere, posso dire che io personalmente auspico questo: vorrei che il popolo egiziano non si consegnasse acriticamente né ai militari né al fondamentalismo islamico. Come possono sperare nella democrazia se alla classe militare danno tutto questo potere sulle proprie vite? La popolazione per il momento è incapace di portare avanti un processo che non sia di rabbia, questo è il vero problema di fondo. Stretti tra i due fuochi dell’integralismo religioso –dovuto all’ignoranza- e della dittatura militare, l’augurio è che sappiano distanziarsi da queste due forme di fascismo».
 
 

 


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