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Ma la felicità non è solo per le persone Down

Il video #DearFutureMom conta già 1,2 milioni di visualizzazioni ed è arrivato anche su Vanity Fair. Un papà però ci vede una nota stonata: «si sottolinea troppo ciò che questi ragazzi sanno fare. Forse chi non ha queste capacità non ha diritto alla felicità?».

di Alessandro Mosconi

#DearFutureMom: è un video molto bello quello della campagna mondiale di quest'anno in occasione del World Down Syndrome Day 2014. Ci riconosco persone care ed amiche, che ho praticamente visto nascere… e non solo. Mi sono commosso. E allora perché, nonostante questa commozione e la bellezza del filmato, alla fine della sua visione mi è rimasto un po’ di disagio dentro?

Ci ho dovuto pensare un attimo per capirlo, ma alla fine ho realizzato che la ragione di questo mio disagio è il messaggio che sta “prima” o “dietro” al bellissimo slogan dello spot: «Le persone con la sindrome di Down possono vivere una vita felice. Insieme possiamo far sì che questo sia possibile… Ognuno ha il diritto di essere felice». Un messaggio bellissimo e anche profondamente vero. Ma allora perché farlo precedere da tutti quei «potrà, saprà, riuscirà, scriverà, leggerà, abbraccerà, lavorerà, guadagnerà»? Il messaggio che si dà, mi sembra, è che tutte queste cose siano “propedeutiche” e indispensabili alla tanto desiderata felicità.

Sono parziale, lo so, perché nella mia famiglia c’è un figlio con sindrome di Down e un altro con problemi ben più gravi. Ma non posso fare a meno di pensare, anzi di “sentire” nella pancia, che a tante persone con disabilità più gravi della SdD (ma anche a tante appartenenti a questa categoria purtroppo), la stragrande maggioranza o addirittura la totalità di questi “pre-requisiti” saranno negati. E allora mi chiedo: forse loro non hanno il “diritto-possibilità” alla felicità?

Se è così il rischio è quello di muoversi su un terreno minato. Un terreno dove comunque esistono degli spartiacque che fanno la differenza. Non so quanti potranno capirmi, ma credo che questo spot sia in fondo troppo “corporativo” e che non raggiunga il vero obiettivo che una campagna di questo tipo dovrebbe avere, specie in un momento storico in cui essere disabili spesso non consente di avere accesso ai pre-requisiti di cui parlavo sopra.

La strada giusta dovrebbe essere, io credo, quella di riunire “tutte” le categorie “svantaggiate” a motivo di disabilità, in un unico progetto di grande coscienza civile. Diversamente sarà “guerra tra poveri”, dove certamente noi “down” siamo tra i favoriti (essendo tanti e avendo anche dalla nostra la fortuna di un’innegabile simpatia di fondo, almeno fino al raggiungimento dell’adultità), ma dove altrettanto potremo magari inconsapevolmente contribuire con le nostre affermazioni ed i nostri atteggiamenti a creare nuovi limiti divisori (o a spostarne di già esistenti) tra le vite “degne di essere vissute” e le altre.

Se lo spot avesse avuto il solo scopo di "convincere" quella mamma immaginaria citata all'inizio, sarebbe stato perfetto. Perché è bellissimo, emozionante, coinvolgente. Ma il filmato è anche un messaggio di cultura, lanciato in occasione della WDSD, un’occasione per certi versi unica di parlare di questi temi. È una riflessione che faccio io per primo, rileggendo criticamente anche il mio atteggiamento e alcune scelte fatte in passato, e che propongo solo per rendere sempre più efficace e “vero” il nostro agire e “normale” ogni forma di “anormalità”.

Alessandro Mosconi, classe 1958, è padre di tre figli, di cui due nati con diversi tipi di disabilità congenita di origine casuale. Sulla sua esperienza ha scritto il libro Come Aquiloni… o quasi (edizioni Tracce).


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