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Mendini, una giornata in Cometa

Il grande designer ha incontrato i ragazzi che frequentano le scuole di formazione. La sua raccomandazione: «Create oggetti vivi, cioè diversi da voi»

di Giuseppe Frangi

Quando sul megaschermo appare il celebre Cavatappi disegnato per Alessi in sala scatta l’applauso. Non preparato e non previsto. In platea non c’era un pubblico di addetti ai lavori. C’erano i ragazzi che frequentano le scuole della Cometa a Como, insieme a due classi dell’Istituto di design di Cantù. Erano tutti lì ad ascoltare Alessandro Mendini arrivato perché curioso di conoscere questa grande impresa sociale nata per mettere nella mani dei ragazzi, assieme ad un lavoro, anche un destino. La giornata di Mendini è cominciata alla Contrada, dove ci sono i laboratori tessili e di falegnameria, inseriti nella struttura di una fabbrica dismessa. Poi è salito alla Cometa, dove ha incontrato ragazzi e professori, ha mangiato con loro e soprattutto ha parlato ad una platea attenta e curiosissima e presentato dal professor Francesco Campiotti. Mendini innanzitutto si è raccontato. Ha detto del timore che all’inizio della sua storia aveva nel prendersi la responsabilità del progetto. Al punto che si era rifugiato in attività editoriali, dirigendo riviste. Scrivendo più che inventando oggetti che non c’erano.

Ma c’era un motivo di questa resistenza. E Mendini se l’è chiarito cammin facendo: non si crea per esprimere se stessi. È quello l’equivoco che paralizza i talenti veri. Si crea per dar vita a delle storie. Ecco allora perché gli oggetti di Mendini sono nati e cresciute prendendo spesso la forma di persone. Sono creature “altre” dal suo creatore. E poi come creature, cercano relazioni, intessono trame. In un mondo in cui le relazioni sono intossicate o recise, l’essere designer può quindi avere una valenza socialmente positiva. Se un oggetto è definito solo dal suo uso, ha detto con battuta ad effetto Mendini, non è vivo. «È un cadavere».

«I miei oggetti non sono io, sono loro. E sono loro che rivelano qualcosa di me». L’idea dell’oggetto che vive fa breccia sui ragazzi. Che chiedono come si fa però a immettere quella vita. Mendini ha una ricetta semplice: bisogna essere un po’ scorretti. Si deve sbagliare. L’accostamento fuori luogo di colori, ad esempio, può dare la scintilla che cerchiamo. Come anche l’alterare determinatamente le proporzioni e le dimensioni. Tutto questo mette in moto dinamiche non previste che accendono l’attenzione e stabiliscono relazioni. «I colori giusti ti uccidono», dice sorridendo Mendini.

Poi c’è la partita affascinante dei materiali. Che possono essere usati pure per destinazioni impreviste, come la poltrona fatta di mosaico. Tutto funziona se si ha il coraggio di infrangere qualche regola, se si rompe il meccanismo ovvio del cose. Poi c’è l’ultimo pensiero, che è l’approdo sintetico del percorso. Raccomanda Mendini: «Dovete creare la vostra tradizione personale». Cioè lavorare su dei simboli, che sono segni limitati, ma che diventano il vostro linguaggio. Lui racconta di avere avuto l’intuizione davanti ad un quadro di Savinio (che è comparso sullo schermo, L’isola dei giocattoli). Lì al centro c’è una grande calamita appesa a un chiodo. Mendini racconta che per lui è stato il punto di ispirazione. L’innesco di un cammino che porta alla tradizione personale. Di cui il Cavatappi applaudito è un po’ l’icona. E si capisce quindi perché l’applauso sia scoppiato spontaneo, prendendo in contropiede Mendini stesso.

Alla fine tra chi si fa largo per i saluti, c’è Rosaria Longoni, mitica professoressa del tessile. «Qui abbiamo bisogno di pazzi come lei», gli dice. Mendini sorride. E si vede che acconsente.

 

 


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