Media, Arte, Cultura

L’umano all’epoca delle compassioni tristi

Dalla sfera pubblica alla messa in scena: lo spazio comune si è trasformato in un'immensa bolla che neutralizza ogni presa di distanza e ogni scommessa sul senso. L'Altro - affogato nel moralismo dei diritti civili o nell'empatia delle compassioni tristi - scompare, sostituito dal "diverso": declinazione soft del barbaro di coloniale memoria, negazione di ogni reale differenza. Una riflessione a partire dall'ultimo libro di Alberto Abruzzese.

di Marco Dotti

Dal discorso alla performance

La sfera pubblica, ovvero la rete di discorsi che riguardavano interessi comuni e prendevano corpo nei luoghi fisici (un bar, una piazza) o mediali (un giornale, il web), appare sempre più friabile. L'umano è diventato davvero troppo umano e si sta diradando per eccesso, più che per difetto. Per proliferazione e saturazione, più che per sottrazione o contrazione.

Che cosa è accaduto? Semplicemente, le politiche occidentali hanno trasformato lo spazio comune in un'immensa bolla capace di neutralizzare ogni presa di distanza e di senso.

La scena pubblica è diventata una colossale messa in scena. Il discorso è stato sostituito dalla performance, la condivisione dalla lacrima, al punto che, scrive Alberto Abruzzese nel suo ultimo libro, Punto zero. Il crepuscolo dei barbari (Luca Sossella editore, 2015, pagine 184, euro 15):

il mondo in cui il cittadino-spettatore si trova immerso è una terziarietà falsificata, una finzione (fiction) scritta e sceneggiata perché funzioni da territorio sperimentale di vita per l'io che guarda la scena.

Il legalismo, il banale chiacchiericcio sui diritti umani sempre sganciati dalla concretezza sofferente dell'umano, l'umanitarismo della lacrima e l'attivismo da poltrona – click activism o slacktivism – e, non ultimo, il campo dei diritti civili…

Quello dei diritti civili è un campo dove è la sofferenza degli altri a fare da concime, scrive Abruzzese

Abitare l'altro

L'analisi di Abruzzese si concentra a lungo su questo nuovo spazio dell'abitare occidentale e sulla crisi che ne deriva. Una crisi di soggettività, identità e soggettivazione – in una parola: una crisi antropologica – che viene, più che da un "fuori", da dentro, ossia «proprio dal modo di divenire di quanti in questa identità continuano a abitare».

Ogni identità, convoca immediatamente un'alterità. Identità e alterità che o schema "civilizzati-barbari" non riesce più a contenere. Chi è il "barbaro"? Il barbaro interno? I giovani che né studiano, né lavorano – ma forse qualche senso, anche solo disertando dal non senso comune? Gli eccentrici delle nuove forme di vita? O noi, rassicurati dal sedere in qualche salotto letterario della civiltà del commento?

In un mondo in cui spazio intermedio tra sovrano e cittadini si è assottigliato sempre più, L'Altro, soffocato da questa assenza di profondità di campo e affogato dal moralismo de diritti civili, scompare, sostituito dal "diverso". Le differenze affogano nella retorica della diversità e tutto si riduce all'infinita ripetizione dell'identico nulla.

L'epoca delle compassioni tristi

Nell'epoca della grande compassione generalizzata, a cedere è infatti quel "noi" che, dinanzi a ogni calata (immaginaria o reale) dei barbari (immaginari o reali), ha in qualche modo garantito la sopravvivenza di una struttura che ha variamente preso il nome di Occidente.

Il "noi", oggi, non è più difensivo, ma inclusivo. Talmente inclusivo da risultare vuoto di alterità e differenze. "Mi fa male il mondo", cantava Gaber, criticando questo abbraccio talmente inclusivo da risultare troppo simile a una stretta mortale.

La morale umanitaria, così distante da quel'etica attiva a cui in qualche modo sembrerebbe richiamarsi Abruzzese, vive di questo noi inglobante, fatto di universali, di diritti ossia di forme senza sostanza e circostanza.

Ma gli universali su cui si reggeva la dinamica illuminista, osserva acutamente l'Autore, funzionano sempre meno e a sostituirli interviene l'universalismo.

Un universalismo che è solo un "particulare" rovesciato. Il pericolo, allora, non viene più dai barbari, viene da quel "noi" che si sta sgretolando tanto da arrivare a un punto zero della soggettività e delle (sue) differenze.

Per un verso,

l'Occidente sta ri-generandosi in chiave anti-moderna: anti-umanista, anti-sociale, anti-sapienziale.

Per un altro verso,

il "noi" dei moderni sta cedendo dal proprio interno: estensione e intensità- le doti di un'identità forte – sono infatti risorse che creano potenza ma a prezzo di un'usura sempre più elevata che fa implodere la soggettività e le sostanze da loro beneficate.

Fondata sulla contingenza

Nella crisi che sta travolgendo il nostro mondo, irrigidendolo in forme sempre più lontane dalla vita, il pericolo corre su superfici lisce e globali. Ma è sempre dal concreto – dall'impatto dell'immaginario con la realtà – che il timore, mondato nel pericolo, può aprire uno spazio nuovo – precario forse, ma nuovo – di vita.

La nuova liquidità promessa dalle innovazioni tecnologiche può essere la mossa del cavallo messa in opera da un soggetto moderno disposto ad essere terribilmente spregiudicato pur di rinascere a nuova vita. Ma può essere al tempo stesso il modo più facile che una soggettività umana in declino e senza altro possibile ricambio si è scelta per lasciarsi precipitare nella porosità della natura senza soggetti e senza oggetti dalla quale è emersa. La ragione sofferente del destino umano, alla resa dei conti, sta dimostrando di non essere riuscita nemmeno a sostenere e portare a compimento la sua limitata natura di corpo parassita. Nel ritornare in sé della natura che, vinta l’ambizione umana di farsi società fuori del mondo, si appresta a farne una sua semplice scoria, si può scorgere anche il crepuscolo dei barbari come differenza e patrimonio da far fruttare non per rianimare l’umano volere ma per liberarsene.

Alberto Abruzzese, Punto zero. Il crepuscolo dei barbari, p. 166

Inutile negare che questo pericolo abbia ricadute verticali e profonde. Non è solo l'accoglienza materiale a essere messa in scacco dalla "arrivo dell'Altro". Sono le retoriche e le dinamiche di non-relazione a saltare. Saltano, in sostanza, i dispositivi per anestetizzare l'Altro. L'Europa, intesa come parte di questa anestesia, non regge più. Ed è un'occasione per tutti capire che dall'essere sulla stessa barca siamo passati all'essere nello stesso mare.


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