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Incubatori di startup: i conti non tornano

Sono oltre cento gli incubatori di startup attivi nel nostro Paese, il costo dell'investimento medio per creare un posto di lavoro è di 38mila euro il 68% sostenuto da fondi pubblici, eppure la resa rispetto agli investimenti rimane bassa e per qualcuno si tratta solamente di un "ammortizzatore sociale"

di Ottavia Spaggiari

Nella Silicon Valley sono considerati dei veri e propri frullatori in grado di sfornare migliaia di startup (e acquisizioni da svariati miliardi di dollari) all’anno, da qui sono passati Airbnb, Reddit e Dropbox. Sono gli incubatori e acceleratori di impresa. E’ qui che lo startupper, dopo una severissima selezione all’ingresso, si fa le ossa, lavora sul prodotto, sulla strategia e, soprattutto, sul modello di business, aiutato da una schiera di professionisti provenienti dal gotha della valle dell’innovazione, dal product manager di LinkedIn alla responsabile mobile di Google, preparandosi ad incontrare gli investitori e a scendere sul mercato.

Più defilati sui media delle ormai raccontatissime startup, negli ultimi cinque anni, i programmi di incubazione e accelerazione di impresa sono sbarcati anche da noi, conquistando la penisola e coinvolgendo pubblico e privato, in un’ondata di entusiasmo clamorosa. Per i più ottimisti un’opportunità per rilanciare l’ecosistema dell’innovazione italiana, per altri solo un’enorme bolla, fatto sta che se a fine giugno 2015 le startup innovative iscritte al Registro delle Imprese erano 4.248, gli incubatori, secondo il rapporto di Italia Startup pubblicato nel 2014 sarebbero più di cento. Numeri importanti, soprattutto se paragonati al resto d’Europa. In Gran Bretagna dove solo nel 2014 sono state create 581mila nuove imprese, circa una al minuto, gli incubatori e i programmi di accelerazione sono appena 59.

“Negli Stati Uniti, si va sempre più verso la concentrazione di questi percorsi di accelerazione, cosa che invece non avviene in Italia, dove invece prolificano iniziative con una dimensione locale molto accentuata,” racconta Alberto Onetti, imprenditore e presidente della Mind the Bridge Foundation che promuove l'imprenditorialità in Europa e nel mondo. “Il mercato scremerà la qualità.”

Fortissima da noi anche la presenza del pubblico. Basti pensare che, dei 30 incubatori “ufficiali”, ovvero certificati e aventi quindi diritto alle agevolazioni previste dal Decreto 2.0, 14 sono iniziative promosse da poli universitari ed enti pubblici. Il costo della creazione di un posto di lavoro attraverso il sistema degli incubatori nel nostro Paese, secondo lo European Business and Innovation Centre Network, si aggira intorno ai 38,000 euro con un investimento del pubblico che rappresenta il 68%, paragonato al 23% della Germania, uno dei mercati più vivaci in Europa, dove, le startup impiegano in media 14.6 persone (contro i 2,9 dipendenti di quelle italiane).

“Il problema è che in Italia la startup è diventata un ammortizzatore sociale,”, afferma Fernando Napolitano, manager e investitore, fondatore dell’Italian Business and Investment Initiative, un programma che offre alle startup italiane la possibilità di sbarcare negli Stati Uniti. “Il coinvolgimento del pubblico, non è di per sé sbagliato, anche in Silicon Valley, vi sono stati incentivi alla crescita dell’ecosistema, il fatto però è che, poi, sono arrivati enormi capitali privati e questo in Italia non accade.” Gli investimenti in startup high-tech nel nostro Paese, sono diminuiti del 15% nel 2014, scendendo dai 129 milioni del 2013 a 110 milioni.

Ad essere sbagliato, secondo Napolitano, è l’intero paradigma, “La startup non è fatta per essere scalata in un panorama così complesso e così articolato come l’Europa. Gli Stati Uniti hanno un mercato unico di 318 milioni di persone, è per questo che arrivati ad un certo punto chi fa startup deve fare il salto ed arrivare qui. D’altronde si tratta di un modello prettamente americano, che ha come fine ultimo l’exit, se continuiamo a parlare di startup e incubatori senza parlare di exit, significa che non abbiamo capito nulla.” Continua Napolitano, perché nella Silicon Valley, la parola chiave, quella che conta davvero, che alimenta il mercato e fa palpitare il cuore degli investitori è una sola: exit, ovvero, l’acquisizione dell’azienda, molto spesso da parte di una società più grande.

“In Italia vi è una sorta di preclusione culturale al pensiero di vendere la propria azienda, mentre negli USA chi inizia a lavorare alla sua startup lo fa, pensando proprio a questo,” spiega Onetti. “Solitamente le exit avvengono quando ci sono grandi aziende innovative che hanno bisogno di alimentare il corso dell’innovazione. Negli Stati Uniti è abbastanza semplice essere acquistati, Facebook fa 4 o 5 acquisizioni al mese. In Italia il tessuto imprenditoriale è molto diverso.” Secondo il rapporto di Startup Europe Partnership, negli ultimi 5 anni le exit italiane sono state 28, contro le 37 delle startup spagnole, le 75 francesi, le 85 del Regno Unito e le 125 della Germania

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Foto: JUNG YEON-JE/AFP/Getty Images


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