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#MexicoNosUrge, l’appello per fermare la violenza del narcotraffico arriva in Parlamento

L'Europa e l'Italia non facciano più finta di non vedere la tragedia messicana. 100 giornalisti uccisi dal 2000 ad oggi, 164mila civili uccisi dal 2007, 30mila desaparecidos dal 2006 e 2,5 milioni di sfollati. Il reportage di Carla Foppa, pubblicato sull'ultimo numero di Vita, è un viaggio nella nazione ostaggio dei cartelli che rende questi numeri concreti

di Redazione

Alla camera dei Deputati è stato presentato l'appello petizione #MexicoNosUrge rivolta all’Italia e all’Unione Europea perché «si sospendano tutte le relazioni (politiche e commerciali) con il Messico fino a quando non si farà luce sui gravi casi di omicidio, violenza e sparizione forzata di persone. I paesi dell’Unione Europea devono applicare l’embargo agli investimenti in Messico e chiudere le loro Ambasciate, così come si è fatto nel caso di altri paesi che non osservano l’obbligo del rispetto dei diritti umani e del diritto alla vita dei propri cittadini». (Per aderire alla campagna basta scrivere qui mexiconosurge2015@gmail.com in allegato è scaricabile il testo dela petizione in versione integrale).

Una movimentazione che nasce perchè, se è vero che il Messico non è un Paese in guerra, però in Messico si muore come in un Paese in guerra. Conseguenza diretta della guerra contro il narcotraffico e la militarizzazione del territorio, decisa nel 2006 dal presidente Felipe Calderón, è stata l’esplosione dei livelli di violenza. In primo piano: il “desplazamiento forzado” e le “desapariciones forzadas”. Seguendo queste due “rotte” una giornalista italiana ha realizzato un drammatico reportage per Vita. Per ragioni di sicurezza si firma con uno pseudonimo. Reportage che pubblichiamo mentre, venerdì 31 luglio scorso, venivano uccisi a Città del Messico il fotogiornalista Rubén Espinosa, l’attivista Nadia Vera, la studentessa Yesenia Quiroz Alfaro e di due donne che si trovavano con loro, Nicole Simon e Alejandra. Rubén Espinosa è l’ultimo giornalista ucciso in Messico in un massacro che sembra non avere fine. Sono più di cento infatti i giornalisti assassinati dal 2000 ad oggi. Nello stato del Veracruz, dove Rubén lavorava raccontando gli abusi del governo statale e le violente repressioni contro gli oppositori politici, sono 14 i giornalisti uccisi durante il governo di Javier Duarte de Ochoa, soprannominato anche il mataperiodistas, l’ammazza giornalisti. Tra il 2007 e il 2014 in Messico inoltre ci sono stati più di 164mila omicidi di civili. Negli stessi anni in Afghanistan e in Iraq si sono contate circa 104mila vittime. Il numero di persone sparite dal 2006 ad oggi, basandosi su dati conservativi del governo messicano, supera le 30mila. È indefinito il numero delle persone sfollate forzatamente all’interno del paese, ma molte organizzazioni di difesa dei diritti umani parlano di più di due milioni e mezzo di persone.

Quella gente senza più Paese. Quei paesi senza più gente

Rotta 1. Nord-est: da Guerrero a Tamaulipas. “Desplazamiento forzado”

In Messico le persone fuggono, dalle zone rurali alle grandi città, in mezzo alla disintegrazione di una qualsiasi struttura che possa ancora ricordare il senso di cittadinanza. Quando le persone fuggono, a rimanere sono villaggi fantasma. Nella Sierra di Guerrero ci sono alberi immensi, coltivazioni color caffé e i gatilleros. Gatilleros: bassa manovalanza che serve ai narcos per preparare il terreno e procedere all’occupazione di campi e manodopera da schiavizzare. La loro capacità operativa è efficace e immediata: arrivano e incendiano case, sequestrano e ammazzano, neutralizzano l’economia di cui quei luoghi si nutrono e creano un regime di libero transito per traffici illegali e tratta di esseri umani. «Quando arrivano siamo intrappolati nella falsa domanda: vado o resto?». Juan R. ha 30 anni e non è mai andato da nessun altra parte che non fosse ogni angolo di questa Sierra. Restare significa cedere le proprie terre e le proprie vite ai narcos, lavorare per loro, trasformare le coltivazioni millenarie di quei luoghi in piante di coca.
Vado o resto? Il terrore risponde, facendo scomparire interi villaggi, svuotandoli in un solo giorno. Si chiama desplazamiento forzado. Tlacotepec è uno dei pochi municipi ancora in piedi. Tutti lo sanno, tutti lo vivono, ma nessuno lo dice: i narcotrafficanti stanno controllando l’intero stato di Guerrero. Tutto è incerto, tutto è in pericolo ma di una sola cosa si è sicuri: «la militarizzazione del territorio non servirà a nulla». Dall’alto di una collina, gli alberi come paravento, si vedono i campi sterminati e le persone che ci lavorano. «Guarda», indica Juan, «non fotografare e andiamo». Nelle parole non dette lasciamo tutta la storia. Nello sguardo interrotto verso una terra che non si può più neanche fotografare, lasciamo tutto il senso di vincoli comunitari in frantumi quando ti tolgono: «La tua casa da sotto i piedi». Solo negli ultimi due anni, bande criminali armate hanno costretto alla fuga 2mila persone provenienti solo da tre municipi. «Quando il narcotraffico è arrivato in Guerrero, il governo a guida Prd (Partido revolucionario democratico, sinistra) del governatore Ángel Aguirre Rivero ha minimizzato la situazione e parlato di migrazione interna per motivi di povertà. La gente di questa Sierra iniziava a riversarsi negli stati vicini o nelle grandi città. Avevano casa e lavoro, ma sono scappati dalla violenza.
Si sono separate famiglie, distrutti progetti di vita». A contendersi il territorio, le bande rivali non sono sempre le solite note: al centro della scena ora ci sono Los Ardillos, Los Rojos, La Familia e Los Guerreros Unidos. La rotta della droga che collega la Sierra con le regioni del nord è lo scenario di una guerra brutale fra i vari gruppi criminali. La rotta principale è accompagnata da una miriade di diramazioni secondarie, lungo la quale si riversano tutti i danni collaterali: migliaia di persone in movimento, costrette a fuggire.
«Solo in un giorno oltre 400 persone hanno dovuto abbandonare tre municipi di San Miguel Totolapan e il villaggio di Pezuapa oggi è diventato un villaggio fantasma». Il “desplazamiento” causato dalla “narcoviolencia” è stato poco documentato, secondo uno studio dell’Istituto Parametría fra 2010 e 2011 circa 700mila persone sono state costrette a lasciare le proprie case.
Lungo alcune rotte i villaggi scompaiono e la popolazione resta, riversandosi in altri luoghi. Lungo altre rotte i villaggi restano, ma la popolazione scompare, senza lasciare traccia: da Guerrero sino a Tamaulipas. In mezzo a quel silenzio, sembra impossibile capire. In mezzo a quel silenzio inizi a capire a partire dall’odore. Lungo l’autostrada, nel camion entra un odore accecante, come fosse spazzatura incendiata: è l’odore delle fosse comuni disseminate per tutto il Messico, a partire da Tamaulipas. Odore che ti fa da guida verso le fosse e si trasforma in puzza, mentre l’unica cosa che speri è di non arrivare per non guardarci dentro. Prima erano soprattutto persone migranti. Oggi il corpo può essere anche quello di un tuo vicino, di tua sorella, del tuo compagno di banco. Buttati in fosse comuni perché vivevano in una terra che non doveva più essere la loro terra, perché avevano fatto, o solamente detto, qualcosa di troppo, perché erano 43 studenti di una scuola rurale che stavano protestando per avere il minimo per mangiare e libri su cui studiare.

Manuel Arellano Morales è il braccio destro del padre Solalinde, il sacerdote che ha fondato due case rifugio per i migranti che dai Paesi centroamericani attraversano il Messico verso il sogno nordamericano: «Nelle fosse comuni ci sono corpi di persone migranti che non verranno mai identificati. È molto importante indagare sul modo in cui vengono ritrovati i corpi, le modalità della morte raccontano i perché dei massacri. Oggi ritroviamo soprattutto crani e piedi: i corpi vengono sventrati. L’ipotesi più probabile è che il traffico di organi sia ancora fondamentale».
All’interno del Instituto Nacional de Migraciones, esiste un corpo speciale, il famigerato “Grupo Beta”. Una squadra speciale che tortura, sequestra e, in molti casi, consegna al crimine organizzato le persone migranti. Inoltre, secondo le testimonianza raccolte nel 2014 dal Tpp (Tribunal permanente de los pueblos), il crimine organizzato può contare su gruppi paramilitari addestrati dallo stesso esercito messicano per realizzare attacchi di terrorismo di Stato contro organizzazioni della società civile e giornalisti indipendenti. Si vive costantemente in una situazione di panico generalizzato e clima di terrore. Quali fattori si sono intrecciati fino a non poter più capire da che parte iniziare per districarli?
Nelle organizzazioni, nelle assemblee, in università, per iniziare a capire si inizia ad ascoltare ogni storia di violenza e ad analizzare il contesto. «In Tamaulipas la percentuale di corpi mutilati, sequestri, massacrati è al di sopra della media nazionale: 6,78 casi per ogni 100mila abitanti. La polizia è complice, perché legata a filo doppio con la criminalità organizzata. Siamo tutti vittime dell’inefficienza o della collusione delle autorità statali con il crimine organizzato». Parole di Eduardo José Cantú Elías Matamoros, presidente dell’organizzazione civile Tamaulipas por la Paz-H. José sottolinea: «Non sappiamo come vengono usati i fondi pubblici destinati alle vittime del “desplazamiento”, c’è una completa mancanza di trasparenza e per di più non ci sono registri che sistematizzino il fenomeno. L’emergenza non nasce ora, il caso di Ciudad Mier racconta tutto».

Quando in Tamaulipas iniziò a instaurarsi il potere indiscusso del cartél de los Zetas, le città cambiarono volto, soprattutto quelle che rappresentavano punti strategici di connessione con altri stati o per la presenza di risorse naturali, in primo luogo l’energia idroelettrica. Los Zetas inizialmente erano solo il braccio armato del “cartel del Golfo”, ma in poco tempo sono riusciti a sganciarsi da qualsiasi controllo per due caratteristiche molto particolari: è un cartél costituito da ex disertori dell’esercito e ha una struttura basata sull’ordine e la disciplina, la forza e la determinazione. Crescere e diventare indipendenti costa. Il prezzo lo pagò tutto Ciudad Mier, con il massacro di 180 persone in un solo giorno. Era il 2007 e Ciudad Mier era un punto strategico perché sorta lungo l’autostrada federale che porta fino alla frontiera con gli Stati Uniti. Da allora molte altre città sono state sventrate. In Messico il controllo del territorio da parte della criminalità organizzata ha subito una metamorfosi. Per spiegarla possiamo pensare a due fasi. In una prima fase il narco era organizzato in piccoli nuclei. La criminalità si infiltrava nella classe politica, la governava e la trasformava in narcopolitica. In una seconda fase, sono stati i gruppi dello stato ad infiltrarsi nelle attività della criminalità e finiscono per gestirle. Non esistono più solo cellule, ma il territorio messicano si è trasformato in una sequenza ininterrotta di zone di influenza diretta o indiretta da parte di differenti gruppi. La politica si trasforma in necropolitica e lo stato in “an-estado”, come lo definisce il giornalista e scrittore Sergio Gonzalez Rodriguez: «Uno stato che simula legalità e legittimità, costruisce allo stesso tempo un “an-stato”, ovvero la privazione e la negazione di se stesso».
Sergio è uno dei giornalisti più importanti del continente latinoamericano ed è sotto minaccia costante. È stato uno dei primi a scrivere delle connessioni tra politica e criminalità. La violenza la narra a partire dal suo proprio corpo, da quando nel pieno centro di Città del Messico è stato sequestrato, torturato, lasciato agonizzante su un marciapiede. In questi campi di guerra ultracontemporanei, l’oscenità della violenza supera costantemente se stessa, ed è così che il dramma delle persone “desplazadas” scompare davanti al dramma di decine di cadaveri lasciati ai bordi delle strade…

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Tutte le foto sono di Mauro Pagnano
In allegato il testo dell'appello e l'elenco dei firmatari


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