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San Francesco, le banche e il dono

Nell’eredità del santo di Assisi ci sono due entità opposte. Da lui nacquero le prime attività di credito. Ma lui diffuse il valore sociale della gratuità. Dove sta il nesso? Intervista a Luigino Bruni

di Giuseppe Frangi

San Francesco come ispiratore dell’idea di banca. Sembra un’affermazione fuori luogo ma non lo è affatto. Perché proprio dall’ordine fondato dal Santo di Assisi prese avvio a inizio 1400 il primo sistema creditizio d’Europa. Ma cosa c’entra il santo che fece una radicale scelta di povertà con chi di professione maneggia denaro? «Non dobbiamo mai dimenticare che Francesco era figlio di mercanti e che per il primo periodo della sua vita aveva seguito le orme del padre. Quindi era uno che il know how degli scambi commerciali, con nessi e connessi, l’aveva acquisito», spiega Luigino Bruni, economista, docente alla Lumsa, tra i promotori delle esperienze di economia di comunione in Italia. Come aveva detto uno dei più importanti storci del santo, Jacques Le Goff, «Francesco è l’esempio sorprendente di un uomo aperto verso la nuova società, con tutti i suoi mali e le sue contraddizioni. È un uomo che osserva con simpatia, con amore, senza livore gli uomini del suo tempo, pieni allo stesso tempo di peccati e di bellezza creaturale. È inevitabilmente un apostolo della nuova società». E per la nuova società, che in quel frangente del 1200 iniziava ad affermarsi come soggetto protagonista e trainante, il tema del denaro non era certo tema di secondaria importanza. Quella dei primi istituti di credito organizzati dai francescani è storia famigliare, in quanto il primo Monte di Pietà sorse proprio nella sua città natale, Ascoli Piceno nel 1458.

In realtà si trattava di Monte dei pegni. Perché il pegno?
I francescani erano gente che conosceva il mondo. E nel prestare denaro volevano un impegno da parte del destinatario a renderlo. Non si trattava di un’elemosina, ma di un contratto vero e proprio. Non veniva mai pensato come denaro a perdere come investimento sui progetti o i bisogni che le persone avevano. Per questo il pegno funzionava da copertura del prestito e simbolicamente impegnava il ricevente a fra cose buone con i denari ricevuti. È interessante anche ricordare che le armi non venivano accettate come pegno: non tutti i pegni sono “buoni”. Nel pensiero francescano un contratto era di aiuto assai più che un dono.

Come si concilia la scelta di povertà con questa legittimazione culturale dell’utilità del denaro?
Sul francescanesimo pesa un grande equivoco: quello di una povertà pensata in chiave un po’ ideologica e massimalista. Ma la povertà di Francesco, che è povertà scelta, ha come sua ragion d’essere anche il liberare dalla povertà chi la povertà se l’era trovata addosso senza averla scelta. È una povertà che libera dalla povertà.

Il monte dei pegni è associato all’idea di ultima spiaggia. Di luogo dove si lasciano le cose più care per recuperare risorse economiche necessarie a sopravvivere…
Quella è un accezione tardiva. Oggi il monte ha quella funzione, ma all’inizio era l’opposto. Innanzitutto erano motori di economia perché erano dei veri istituti di credito che permettevano a chi voleva iniziare un’attività di dotarsi delle risorse necessarie. In secondo luogo con il meccanismo dei pegni legavano i destinatari in un rapporto. È una manifestazione d’interesse da parte di chi ha il denaro rispetto all’opera di chi lo riceve. È un atto di fiducia. E la fiducia è il primo motore di ogni crescita economica.

Resta sempre la domanda di fondo. Perché proprio i francescani hanno dovuto svolgere questa funzione di fondo?
Perché il francescanesimo è il movimento che esce dai chiostri ed entra nelle città, queste nuove entità che stavano crescendo impetuosamente. I francescani vanno per le strade e vedono tutti i tipi di bisogno. Compresi quelli di chi non aveva risorse per avviare anche piccole attività. E vedendo si attrezzano. Certamente fu un non piccolo trauma anche rispetto al resto del clero. La vita monacale si era imborghesita: erano ormai comunità ricche anche se fatte da monaci di per sé povere. Ma i monasteri spesso, con il cumulo di donazioni, erano diventati dei piccoli imperi. Le ricchezze però non erano dinamiche e messe in circolo, ma bloccate nei marmi. Erano acqua ferma. E si sa che l’acqua ferma alla fine puzza.

D’accordo, ma non c’erano soggetti laici che potevano svolgere questa funzione di banche?
C’erano, ma i francescani si muovono proprio per arginare il fenomeno dell’usura. Perché chi aveva denaro lo voleva far rendere al massimo, senza farsi troppi scrupoli. Se non si finiva nelle mani degli usurai, si cadeva in quelle dei banchieri ebrei che applicavano comunque interessi alti.

Quest’anno in occasione della festa di San Francesco cade anche la prima giornata del dono. Che valore può avere una giornata così?
Nei Fioretti di San Francesco viene raccomandato ai frati di non ricevere denaro quando si andava ad annunciare il vangelo, non per ragioni di sobrietà, ma perché se fosse dovuto chiedere un corrispettivo corrispondente al “bene” portato, non sarebbe bastato tutto l’oro del mondo. Questo per dire che la gratuità intesa da san Francesco non è un meno ma un più, è un bene infinito. La giornata del dono deve essere l’occasione per riflettere su questo punto, sulla differenza che tra “regalo” e “dono”. Una differenza profonda, perché il “dono” è innanzitutto un rapporto, un dono di sé. E per questo è contagioso, come spiego sempre è “anti immunitario”, proprio come la fraternità.


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