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Pasolini e il suo rapporto straordinario con Frate Ave Maria, l’eremita cieco

Don Flavio Peloso, superiore generale dell’Opera Don Orione, riporta alla luce una pagina poco conosciuta della biografia dell’artista: l’incontro con Cesare Pisano, che trascorse 40 anni di vita nel segno della preghiera e dell’accoglienza spirituale nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio

di Redazione

Ricorrono oggi, 2 novembre 2015, i 40 dalla morte del grande intellettuale italiano Pier Paolo Pasolini, ucciso all’idroscalo di Ostia nella notte tra il 1 e il 2 novembre 1975. Per questa ricorrenza, don Flavio Peloso, superiore generale dell’Opera Don Orione, riporta alla luce un pagina poco conosciuta della biografia dell’artista, ma non per questo meno importante: l’incontro con il venerabile Frate Ave Maria, al secolo Cesare Pisano, eremita cieco morto oltre 50 anni fa dopo aver trascorso 40 anni di vita nel segno della preghiera e dell’accoglienza spirituale nell’eremo di Sant’Alberto di Butrio.

«Era la primavera del 1963», ricorda don Peloso, «e Pier Paolo Pasolini stava lavorando alla ideazione del film “Il vangelo secondo Matteo"». Era interessato a conoscere da persone ritenute “mistiche” e “sante” come pensassero a Gesù, come si immaginassero le scene del Vangelo, come le avrebbero volute rappresentate. Angela Volpini – una giovane veggente di Casanova Staffora (Pavia) – gli parlò di Frate Ave Maria, già noto per fama di santità, che ella conosceva e frequentava dal 1958. Pier Paolo Pasolini decise di salire all’eremo situato tra le colline dell’Oltrepò pavese e al quale si poteva giungere solo con una lunga camminata tra i monti irti e disabitati. In compagnia della Volpini Pasolini arrivò a Sant'Alberto di Butrio. Frate Ave Maria era in chiesa a pregare, e quando Pasolini si presentò, gli disse: «E come mai un grande artista, un personaggio così famoso, è interessato a conoscere un povero cieco, che sa solo dire "Gesù, Maria, vi amo: salvate le anime!"?”. Cominciò così il colloquio che si prolungò per un paio d’ore. Loro due soli».

«Quando il loro dialogo terminò», prosegue don Peloso, «e Frate Ave Maria si ritirò nella sua cella, Pasolini continuò la visita agli angoli più nascosti ed artistici dell’eremo. Ogni tanto, usciva con qualche esclamazione del tipo: Che luogo! Che uomo! Che colloquio straordinario!. Più tardi, commentò più diffusamente: Frate Ave Maria aveva tutta l’attenzione per me. Parlava con tale naturalezza, pur nel suo linguaggio religioso, da risultare non solo rispettoso, ma affascinante. Non si è stupito del mio scetticismo e mi ha detto che il “suo Gesù’" ama più i lontani che i vicini, che non si scandalizza di niente e che solo Lui conosce davvero il cuore umano. Di fronte a lui, io artista, non mi sono sentito, come succede spesso nei luoghi seri ed importanti, un po’ fuori contesto… Anche il frate è un originale come me, un creativo… Ha inventato la sua vita, strana per il buon senso comune, ma vera e affascinante. Anche lui è un figlio d’arte, riesce a trasformare in bella e straordinaria una vita che, analizzata razionalmente, è la morte civile e la follia”. Poi, l’acuto ed inquieto scrittore volle rimanere ancora qualche tempo solo. E si incamminò verso il vicino bosco. Forse annotò qualcosa di quell’incontro. La Volpini profittò per andare alla cella di frate Ave Maria per ringraziarlo e congedarsi. «L’amico che mi hai portato oggi», le disse frate Ave Maria, «ha bisogno di vedere tanta fede, tanto amore, tanta innocenza, per far uscire dal suo cuore il suo grido d’amore, oltre che di denuncia. Stagli vicino. Se quest'uomo potesse servire il Signore, chissà che cose meravigliose farebbe!”. Poi, quando Pasolini ritornò per accomiatarsi, Frate Ave Maria l’accompagnò alla porta e quasi gli gridò con la sua voce roca: «Voglio dirle che qui c’è un altro amico, che sa solo pregare, ma che pregherà tanto perché lei faccia cose bellissime».

«Quando Pasolini seppe della morte di Frate Ave Maria», conclude don Peloso, «il 21 gennaio dell'anno dopo, inviò ad Angela Volpini, che gli aveva comunicato la notizia, il suo libro “Poesia in forma di rosa” (1961-1964) con uno scritto posto come segnalibro tra le pp. 42-43. Gli segnalava una pagina autobiografica nella quale egli alludeva al suo incontro con l’austero e felice eremita cieco, incontrato all’eremo di Sant’Alberto di Butrio qualche mese prima.
E cerco alleanze che non hanno altra ragione d’essere, come rivalsa, o contropartita, che diversità, mitezza e impotente violenza: Gli ebrei… i negri… ogni umanità bandita… E questa fu la via per cui da uomo senza umanità, da inconscio succube, o spia, o torbido cacciatore di benevolenza, ebbi tentazione di santità. Fu la poesia».


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