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Trento, la buona convivenza tra rifugiati e “matti”

Dal 2012 un gruppo di rifugiati provenienti dalla Libia è stato affiancato ad alcuni utenti dei servizi di salute mentale. Vivono insieme, in una convivenza che si sta rivelando più terapeutica di molti percorsi tradizionali, che con queste persone avevano fallito. Un modello che forse può funzionare anche per altre fragilità

di Sara De Carli

«Una storia tanto vera quanto gioiosa»: così la definisce Renzo De Stefani, Responsabile del Servizio di salute mentale di Trento e Direttore del Dipartimento di Salute mentale. Da tre anni a Trento giovani africani fuggiti dalla Libia alla fine del 2011 convivono con utenti del Servizio di salute mentale. Una scommessa avviata sperimentalmente nel 2012, che dopo tre anni sta dando risultati positivi: «La piccola Trento, oggi, conta più di venti appartamenti in vivono una sessantina tra bianchi e neri, a cui si sono aggiunti anche altri rifugiati di altra etnia e colore», spiega De Stefani. «Sono convivenze che si aprono e si chiudono, che in alcuni casi fanno gridare al miracolo, che in altre necessitano di un paziente lavoro di ricucitura. Dove ciò che è certo oggi, domani non è più tale. Dove i Servizi sociali del Comune e il Servizio di salute mentale dell’Azienda Sanitaria ‘lavorano’ assieme, mettendoci passione condivisa. Ed è sempre più evidente che la cosa funziona anche con altre sofferenze, espresse da minori, anziani, disabili di varia natura».

Nel 2011 a Trento, come nel resto d’Italia, erano arrivati diversi profughi provenienti dalla Libia, in quella che fu la prima “Emergenza Nord Africa”. Sono alcune centinaia di rifugiati politici «che mal sopravvivono con i bonus pubblici, che non trovano lavoro, che vengono spesso guardati come presenze tollerate, ma non riconosciute». Una descrizione che somiglia molto a quella di alcuni utenti della salute mentale e dei servizi sociali, che non trovano la risposta giusta, la struttura in grado di dargli respiro, i professionisti capaci di portarli fuori dal tunnel. Una premesse è necessaria: a Trento da diverso tempo c’è un approccio vivace alla salute mentale, che ambisce dare voce e protagonismo a “matti”, senza fissa dimora, marginali di varia origine. Si parte dal convincimento che queste persone – utenti e familiari in prima linea – hanno un sapere esperienziale sulla salute mentale che, mescolato al sapere dei professionisti, produce percorsi innovativi ed efficaci (per saperne di più leggete le buone pratiche del Fareassieme o le esperienze di Le parole ritrovate). Nella salute mentale di Trento così si trovano anche figure dai nomi un po’ strani, come UFE (Utenti Familiari Esperti) e Hope (Homeless peer), che “lavorano” a fianco degli operatori professionisti e vengono giustamente monetizzati per co-produrre e a co-gestire servizi pubblici dove il sapere esperienziale trova uno spazio centrale e ribalta paradigmi che sembravano intoccabili.

L’inizio della storia risale al 2012. «I rifugiati politici hanno due caratteristiche che ci fanno scattare la lampadina. Hanno storie di vita drammatiche, che li hanno resi esperti di sofferenza quanto pochi al mondo e provengono quasi tutti da culture che vedono nel ‘matto’ o in generale nel marginale, una presenza che convive naturalmente nelle loro famiglie allargate, senza generare particolare stigma o pregiudizio», ricorda De Stefani.

La lampadina ha portato «a credere che mettere nella stessa casa qualche matto e qualche rifugiato politico avrebbe creato una nuova ‘famiglia’ dove sarebbero nate convivenze improntate ad una affettività ‘primordiale’, a una sorta di duplice resurrezioni. I ‘nostri matti’ ritrovavano una qualità di vita e di relazioni che avevano perso da lustri, i rifugiati trovavano, forse per la prima volta dopo essere sbarcati sulle nostre coste, senso e dignità alla loro vita». Il progetto sperimentale parte nel 2012, alla fine del primo anno sono 9 gli alloggi reperiti, 10 i rifugiati coinvolti e 20 gli utenti. Formalmente i rifugiati politici e richiedenti asilo diventano gli affidatari degli utenti dei servizi di salute mentale. Sono esperienza fuori dai tradizionali paradigmi di cura, «ma quelli già da tempo, con le persone di cui stiamo parlando, sono falliti».

«In questo modo risparmiamo migliaia di euro, sottratti a interventi per lo più inutili se non dannosi», dice De Stefani. «Questa storia gioiosa e sorridente ha dimostrato e dimostra ogni giorno che niente, in tante situazioni, può lenire le nostre sofferenze di paese ricco di quell’affettività ‘primordiale’ che i nostri amici rifugiati ci insegnano come la più semplice e la più efficace delle ‘cure’».


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