Sezioni

Attivismo civico & Terzo settore Cooperazione & Relazioni internazionali Economia & Impresa sociale  Education & Scuola Famiglia & Minori Leggi & Norme Media, Arte, Cultura Politica & Istituzioni Sanità & Ricerca Solidarietà & Volontariato Sostenibilità sociale e ambientale Welfare & Lavoro

Cooperazione & Relazioni internazionali

La violenza sulle bambine

In occasione della Giornata mondiale per la prevenzione dell’abuso contro i bambini Terres des Hommes lancia il rapporto “Indifesa”. Francesco Occhetta analizza su Civiltà Cattolica tutti i dati sul fenomeno attraverso le tante storie di violazione fisica, psicologica, di discriminazione e abbandono. Eccone un estratto

di Francesco Occhetta

Se è vero, come ha scritto il teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, che «il senso morale di una società si misura su ciò che fa per i suoi bambini», il grado di disumanizzazione di un Paese si misura sulle violenze che i bambini subiscono, tra le mura domestiche o all’interno delle culture in cui vivono. Sono le «grida silenziose», taciute in passato a causa della paura e dell’omertà, che in questi ultimi 20 anni, anche grazie al lavoro svolto dalla Commissione europea, vengono ricordate nella Giornata mondiale per la prevenzione dell’abuso contro i bambini, il 19 novembre.

Il Rapporto Indifesa, curato da Terre des Hommes, che include i principali studi internazionali sulla condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo, ci riporta al fenomeno drammatico della violenza sui bambini, che comprende la violazione fisica, psicologica, la discriminazione, l’abbandono e gli abusi sessuali tra le mura domestiche. La violenza sulle bambine ha implicazioni ancora più gravi quando esse sono costrette a vivere da spose bambine o da baby-mamme, o ad affittare il loro utero.

https://www.youtube.com/watch?v=n1xd8808wBw

Bambine e ragazze private dei loro diritti

La vita di Flor de María, descritta nel centro del Rapporto, rappresenta una sorta di specchio in cui si riflettono le vite di altre migliaia di bambine. A 12 anni Flor de María è costretta a farsi carico dei suoi 3 fratellini, due sorelle di 10 e 5 anni e un maschietto di 2 anni in un piccolo villaggio sulle Ande peruviane. Con un padre assente e alcolizzato e la madre lontana da casa per pagare i debiti accumulati negli anni dalla famiglia, Flor de María — e, come lei, migliaia di altre bambine — si trova a vivere da madre mentre è ancora una bambina: accudisce la casa, cucina e lavora al mercato il sabato e la domenica insieme alla sorella Jessica. Si tratta di storie lontane dai riflettori dei media e singolari per la cultura occidentale che invece sono terribilmente normali nelle zone povere della terra.

Il Rapporto, nella sua minuziosa analisi, si apre con la strage delle bambine mai nate perché «la mancanza di fiocchi rosa» accomuna il destino di Paesi tra loro diversi come India e Armenia, Cina e Albania, Pakistan e Georgia. Secondo le stime dell’Onu, la strage «conta più di 117 milioni di piccole vittime solo in Asia. Cui vanno aggiunte circa 171.000 “bambine mancanti” in Europa Orientale e nel Caucaso. L’aborto resta il sistema più comune, ma circa il 20% di queste “bambine mancanti” (circa 39 milioni) è scomparso dopo il parto, vittime di infanticidio, lasciate morire di fame o uccise dalle malattie.

Nel mondo, 68 milioni di bambine di età compresa tra i 15 e i 17 anni, sono costrette a lavorare

Rapporto Indifesa

Sono infatti ancora troppe le culture in cui si predilige il figlio maschio, che assicura la discendenza, e si considera la femmina come un costo o come soluzione politica per mettere un freno alle nascite. Tuttavia questa mentalità sta portando a situazioni paradossali: in Cina, per esempio è aumentata la domanda di «spose» provenienti dall’estero che incrementa così la tratta: «Migliaia di donne e ragazze provenienti da Birmania, Vietnam, Mongolia, Cambogia, Laos e Corea del Nord vengono trafficate ogni anno in Cina per soddisfare la crescente “domanda” di 32 milioni di uomini cinesi condannati a restare scapoli».

Ci sono poi bambine e ragazze costrette a soffrire per sempre a causa delle mutilazioni genitali femminili che, — nonostante si siano ridotte per le coraggiose campagne dell’Onu e le politiche di molti Stati — riguardano 125 milioni di ragazze. Le operazioni traumatizzanti e dolorose, eseguite in genere da fattucchiere con strumenti rudimentali e spesso senza anestesia, impediscono la cicatrizzazione dei tessuti, rendono le donne più esposte al contagio da Hiv, sono inoltre causa di complicanze durante il parto, di malattie infiammatorie e di incontinenza urinaria. Le emorragie e le infezioni possono condurre alla morte.

La pratica, che si concentra soprattutto in 29 Paesi africani e in alcuni Paesi del Medio Oriente, è difficile da estirpare perché in certe zone è la condizione per trovare marito e per conservare l’onore della donna e della famiglia. In Somalia riguarda il 98% delle donne, in Guinea il 96%, in Egitto il 91%. Nella Repubblica Centrafricana, in Ciad, Egitto e Somalia, le ragazze mutilate tra i 5 e i 14 anni sono circa l’80%. Da questa pratica non si salva nemmeno l’Europa, in cui risiedono circa 500.000 tra donne e ragazze immigrate a cui sono stati mutilati i genitali, mentre circa 180.000 ragazze rischiano l’operazione ogni anno. Sono le mamme a richiedere ai medici di praticare tali mutilazioni.

Istruzione negata e lavoro minorile

Secondo l’Unicef l’istruzione continua a essere negata a circa un milione di bambine. Anche se negli ultimi 15 anni il numero dei bambini che non frequenta la scuola si è quasi dimezzato — da 102 milioni è passato a 57 milioni —, nei Paesi arabi e nell’Asia meridionale e occidentale le bambine che non vanno a scuola superano il 60%. L’istruzione è ancora un lusso per molti ragazzi; solamente le guerre in corso impediscono a circa 28,5 milioni di bambini di studiare. Eppure in Etiopia una bambina che studia guadagnerà il 20% in più rispetto a quelle che non studiano, una bambina indiana il 27% in più, una nigeriana il 23% in più. Studiare nelle periferie del mondo è pericoloso; a volte i lunghi tragitti da percorrere a piedi, i rischi di aggressione o di violenza scoraggiano le famiglie a lasciare che i loro figli vadano a scuola.

È significativa la riflessione fatta dal Garante Vincenzo Spadafora alla presentazione del Rapporto: «Ieri ero a Reggio Calabria per uno sbarco di immigrati con quasi 100 minorenni stranieri non accompagnati, e per la prima volta la maggioranza di loro erano bambine. Incontrandole, sono rimasto molto colpito perché loro stesse, chiedendo di parlarmi, visto che ero lì presente, chiedevano non di mangiare o nuovi abiti con cui vestirsi, ma quando sarebbero potute tornare a scuola». In Siria, per esempio, prima dell’inizio della guerra studiava il 90% dei bambini. Molti di loro stanno scappando e sono diventati l’icona degli immigrati in fuga che per disperazione attraversano i mari e saltano i fili spinati. Sono molti di loro quelli costretti a pagare con la vita il sogno di poter vivere in pace.

Anche il lavoro minorile è considerato una forma di violenza sul minore. I bambini lavoratori sono 168 milioni, più della metà (circa 85 milioni) sono sfruttati sessualmente e costretti a lavorare come schiavi, anzi «in base agli ultimi dati dell’Ilo (International Labour Organization) il fenomeno dello sfruttamento dei minori nel lavoro riguarda circa 68 milioni e 200.000 bambine (2012), una quota minoritaria, rispetto al numero dei coetanei maschi (99 milioni e 800.000). Tra le forme di lavoro più a rischio per le bambine, l’Ilo indica i lavori domestici».

Infatti nel mondo lavorano come domestici 15,5 milioni di bambini; di questi 11,5 milioni sono bambine e ragazze la cui età va dai 5 ai 17 anni. Si tratta di lavori snervanti, con orari continuati che costringono a vivere nella casa dei datori di lavoro. Ancora più dure sono le condizioni dei bambini prestati al lavoro agricolo. Ci sono angoli del mondo in cui questo tipo di sfruttamento è utilizzato come prassi; solamente in India il Rapporto denuncia lo sfruttamento di circa 200.000 bambini.

Spose bambine e mamme «baby»

Nel mondo, ogni due secondi, si sposa una ragazza con meno di 18 anni e 15 milioni di ragazze abbandonano la scuola per diventare mogli; sono circa 720 milioni le donne che si sono sposate prima della maggiore età. Più di una su tre (circa 250 milioni) ha meno di 15 anni nel giorno del matrimonio. Nel 2011 il 38% delle ragazze tra i 15 e i 19 anni ha avuto un figlio o lo aspettava. La cultura delle spose bambine è diffusa nei Paesi dell’Africa sub-sahariana e dell’Asia meridionale; in Niger, per esempio, il 76% delle ragazze si è sposata prima dei 18 anni e il 28% aveva meno di 15 anni; nella Repubblica Centroafricana e in Ciad la percentuale è pari al 68%; in Bangladesh del 65%, in Guinea del 52%. In molti Paesi poveri il destino delle ragazze è deciso dalla famiglia per salvarle dalla povertà e per ricevere l’eredità dal futuro marito.

Secondo l’Unicef le spose bambine sotto i 15 anni si sono ridotte dal 32% al 17%, ma il Rapporto sottolinea la persistente ambiguità di alcune legislazioni: «Il caso del Bangladesh (dove il 29% delle ragazze si sposa prima dei 15 anni e il 2% prima degli 11 anni) è emblematico: “Il governo ha fatto alcuni annunci importanti, ma la proposta di abbassare l’età legale per il matrimonio dai 18 ai 16 anni manda il messaggio opposto — spiega Heather Barr, ricercatrice di Human Rights Watch —. Il governo deve agire al più presto, prima che un’altra generazione di donne venga persa”. Cattivi segnali arrivano anche dall’Indonesia, dove il 13,7% delle ragazze tra i 15 e i 19 anni sono sposate. La Corte Costituzionale di Jakarta, infatti, ha rigettato una proposta di legge che prevedeva l’innalzamento dell’età minima per il matrimonio delle ragazze da 16 a 18 anni, mentre l’età minima per i maschi è fissata per legge a 19 anni».

Nel mondo sono 15 milioni le spose bambine che senza volerlo e nel giro di poco tempo diventano baby mamme

Rapporto Indifesa

Ad arginare questo tipo di matrimoni sono il grado di istruzione delle donne e la sensibilizzazione dei genitori sulle conseguenze di unioni di questo genere. Altrimenti il prezzo da pagare è alto. Ci sono ragazze che non ce la fanno a sopportare questa costrizione, come nel caso di Rubina. Il Rapporto la ricorda così: «Dodici anni, dodici anni appena. Ricordatevi quanti anni aveva Rubina quando è morta. Sposa-bambina del Bangladesh, per sfuggire a quel marito “ricco”, questa estate ha deciso di impiccarsi con la sua sciarpa nel bagno della casa dei genitori che l’avevano consegnata a quell’uomo solo un mese e mezzo prima. Contro la sua volontà».

Quanto più una ragazza è giovane al momento del primo rapporto sessuale, tanto maggiore è la probabilità che questo le sia stato imposto. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità sono comunque diminuite le morti per gravidanze precoci, anche se rimangono alte le malattie conseguenti al contagio. Nel mondo «circa due milioni di adolescenti (tra i 15 e i 19 anni) sono sieropositivi e le ragazze rappresentano la stragrande maggioranza (1,3 milioni contro 780.000 coetanei maschi)».

Bambine vittime e ostaggio nei conflitti

I bambini che vivono in zone di conflitto sono 62 milioni. I loro sogni e le loro speranze sono negate dai colpi delle armi da fuoco, che segnano per sempre la loro personalità. Nelle zone di guerra «è diventato più pericoloso essere una donna che va ad attingere l’acqua o che va a raccogliere la legna da ardere che essere un combattente al fronte».

Di particolare durezza è il resoconto rilasciato da Margot Wallström, Rappresentante Speciale delle Nazioni Unite per i crimini sessuali in situazioni di conflitto: «Durante le guerre spesso vengono commessi stupri allo scopo di seminare il terrore tra la popolazione, di disgregare famiglie, di distruggere comunità, e, in alcuni casi, di modificare la composizione etnica della generazione successiva. Talora si fa ricorso allo stupro per contagiare deliberatamente le donne con il virus dell’Hiv o rendere le donne appartenenti alla comunità presa di mira incapaci di procreare. In Ruanda, durante il genocidio protrattosi per tre mesi nel 1994 furono stuprate tra le 100.000 e le 250.000 donne».

Le agenzie delle Nazioni Unite calcolano che più di 60.000 donne siano state stuprate durante la guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40.000 in Liberia (1989-2003), fino a 60.000 nella ex Iugoslavia (1992-95), e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra. Ultimamente in Siria, Afghanistan, Nigeria e in Congo sembra ripetersi lo stesso copione di violenza. Tra le persone che maggiormente diffondono l’infezione da Hiv sono i militari. Dovunque arrivano, essi commettono stupri e violenze incuranti di aver davanti a sé bambine e ragazze.

Per gruppi armati come quelli di Al Qaida, Al-Shabaab, Boko Haram e Isis, le ragazze vengono utilizzate come trofei di guerra, «schiave che possono essere abusate, picchiate, comprate e vendute senza alcun rimorso. “È permesso comprare, vendere o portare in dono prigioniere di sesso femminile e schiave. Perché sono semplici proprietà”, si legge in un rapporto di Human Rights Watch, che riporta un documento dell’Isis. […]. Secondo quanto riferito dall’Unami (United Nations Iraq) l’Isis avrebbe aperto un ufficio a Mosul, un vero e proprio mercato dove “le donne e le ragazze vengono esposte con cartellini dei prezzi, in modo che gli acquirenti possano scegliere e negoziare la vendita”. Altre situazioni simili sono state segnalate a Ramadi e Falluja, ma anche nelle città siriane di Raqqa e al-Hasakhan. Mentre circa 300 ragazze yazide sarebbero state vendute ad Aleppo».

È il traffico di esseri umani la più importante fonte di finanziamento dei gruppi terroristici. Scrive Zainab Hawa Bangura, la speciale rappresentante dell’Onu sulle violenze sessuali nei conflitti: «Le donne e le ragazze vengono divise in tre categorie. La prima è quella delle donne sposate con bambini e delle anziane. La seconda sono le donne e le ragazze sposate senza figli, la terza è quella delle ragazze più giovani. Queste ragazze vengono spogliate, pulite e fatte sfilare come se fossero bestiame. Le più belle e giovani, ancora vergini, vengono inviate alla base dell’Isis a Raqqa. Lì sono distribuite tra i combattenti o vendute come schiave sessuali al mercato secondo dei veri e propri listini, che praticamente mettono un prezzo alla vita umana. Ho avuto una copia di questi listini, con i prezzi delle donne e dei bambini cristiani e yazidi. I bambini (femmine e maschi, dai nove anni in giù) valgono 200.000 dinari, l’equivalente di circa 150 dollari. Le bambine e le ragazze dai 10 ai 20 anni vengono vendute per 150.000 dinari (circa 120 dollari), mentre le donne tra i 20 e i 30 anni costano sui 100.000 dinari (80 dollari). Mi hanno raccontato di ragazze “ripulite” con un getto di petrolio, a cui veniva appiccato il fuoco se si rifiutavano di fare ciò che ordinavano i loro cosiddetti “padroni”. Oltre che al mercato, le ragazze vengono scambiate tra i combattenti. Ogni volta che una ragazza cambia padrone, è una transazione finanziaria che arricchisce un gruppo terroristico. Quel denaro poi è utilizzato per comprare armi, pagare i combattenti e finanziare il progetto del califfato».

Gli abusi sessuali e l’utero in affitto

Il Rapporto affronta anche il dramma degli abusi: sono circa 70 milioni le ragazze di età compresa tra i 15 e i 19 anni a subire violenze fisiche e abusi, che causano 60.000 decessi l’anno. «Sradicare questi comportamenti è molto più difficile di quanto si pensi. Anche perché molto spesso, sono le donne stesse a pensare che il marito sia in qualche modo legittimato a picchiare la moglie: circa la metà delle ragazze tra i 15 e i 19 anni (126 milioni di persone) pensa che le violenze siano giustificate in qualche circostanza. Ad esempio, se la donna rifiuta di obbedire, esce di casa senza informare il marito, non si prende cura dei figli o se rifiuta un rapporto sessuale. Sono soprattutto le donne che vivono nell’Africa sub-sahariana, in Medio Oriente e Nord Africa a giustificare i mariti, mentre il consenso crolla al 28% nell’Europa centrale e orientale». Le ragazze più rassegnate che tendono a giustificare i mariti sono quelle meno istruite.

Nel mondo circa 70 milioni di ragazze, di età compresa tra i 15 e i 19 anni, subiscono abusi e violenze fisiche

Rapporto Indifesa

In Italia, secondo l’Istat, sono 6 milioni e 788.000 le donne che hanno subìto nel corso della propria vita almeno una forma di violenza sessuale o fisica. Gli autori delle violenze sono per l’80% persone conosciute, soprattutto parenti e familiari (19,5%), oppure amici di famiglia (11,4%), compagni di scuola (8%), amici (7,4%) o semplicemente conoscenti (23,8%). Solamente il 20,2% sono persone sconosciute alla vittima. Questa è forse la violenza che preoccupa di più le società europee: negli ultimi 18 mesi le notizie sul tema degli abusi sono state date con una media di 6 al giorno, lo dimostrano i servizi sugli omicidi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio, Elisa Claps, delle gemelle Schepp e sulla scomparsa di Denise Pipitone.

Tra la nuove forme schiavitù del terzo millennio si sta facendo strada quella dell’utero in affitto. Una pratica che rende le ragazze macchine riproduttive per soddisfare i desideri di chi vuole diventare madre e padre. È una forma di racket riproduttivo su cui sono nati nuovi business. Phulmani, una ragazza indiana, una delle nuove schiave dell’utero in affitto, è stata liberata dopo dieci anni. Strappata all’età di tredici anni ai suoi genitori per diventare una madre surrogata, privata della sua dignità ben sei volte, ha dichiarato: «Mi hanno trattata come una macchina per fare soldi. Non hanno mai avuto interesse per quello che volevo, tutto quello che interessava loro era che facessi nascere bambini». Sono circa 10.000 le donne, povere e analfabete, che ogni anno sono costrette a diventare oggetto di subdole compravendite. La cultura occidentale dovrebbe chiedersi a quale prezzo garantire pseudo-diritti di persone che vogliono un figlio ad ogni costo.

Questo articolo in versione integrale sarà sul numero di Civiltà Cattolica in uscita sabato 7 novembre 2015 (IV 349-358). Francesco Occhetta, gesuita, scrittore e giornalista è giurista, filosofo e teologo e tiene un blog “L'umano nella città”


Qualsiasi donazione, piccola o grande, è
fondamentale per supportare il lavoro di VITA