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“Pregate per me”. Perché queste parole di Papa Francesco?

La parola più dura e rischiosa del cristianesimo, insegnava il teologo protestante Karl Barth, è “esperienza”. Anche la preghiera è esperienza. Esperienza dell'altro."Lo specifico della preghiera", spiegava un altro teologo, Heinrich Ott, "consiste nello sfondare tutti gli orizzonti", facendo saltare gli orizzonti particolari. Forse (anche) per questo il Papa chiede sempre di "pregare per lui"?

di Marco Dotti

Risponde, parla, scrive lettere, telefona. Prega. E non c'è discorso che non si concluda con la richiesta che è diventata famigliare a cattolici e laici: «non dimenticatevi di pregare per me». «Pregate per me» non è una semplice esortazione, un invito tra i tanti. È una richiesta – questo è chiaro, ma un Papa che chiede è più che una novità.

A chi si rivolge, Papa Francesco? A quale volto o molteplicità di volti? Puro espediente retorico, come vorrebbero i critici più malevolmente esposti, o richiamo a una concreta e materiale esperienza di relazione?

La risposta ai critici di questo livello la offre Martin Buber, il filosofo del dialogo citato non a caso nella Lumen Fidei di Francesco, parlando della definizione dell’idolatria offerta dal rabbino di Kock.

Buber ricorda che c’è idolatria «quando un volto si rivolge riverente a un volto che non è un volto».

Rivolgersi a un volto che non è un volto… Non è il caso di Francesco, il cui operare è tutto uno svelare i volti nascosti – il povero, l’escluso, il profugo, l’ultimo, l’intimo, l’infimo etc – dietro al “falso volto” degli idola postmoderni.

Ma la questione si complica: “chi” è il “tu” invitato a “pregare per me” da Papa Francesco? Ecco che la questione si apre e non c’è grande questione che in Francesco non si apra su un tema chiave: la relazione. Una relazione che è sempre vissuta come presenza: “pregate per me”, pregate qui e ora per me, manifestatevi come figure attive nella relazione con me, con voi, tra me e voi, tra voi e me.

Torniamo per un momento alla preghiera, che nella sua struttura profonda è comunque e sempre relazione con l’altro e quel massimamente Altro che è Dio. La preghiera, nel suo essere relazione, è esperienza dell’altro e, per chi crede, dell’Altro.

Che cos’è una preghiera nel suo nucleo più puro – sfrondato a richieste immediate e mondane – se non affidamento? Anzi, la preghiera è un tipo particolare di affidamento. Ci si può affidare al caso, alla sorte, al destino. La fede, insegnava ancora Martin Buber, è un rischio. La fede è un rischio perché aprendosi alla relazione, affidandosi all’altro si corre il rischio che l’altro, non solo l’Altro, non risponda perché distratto, perché incapace, perché non colga il senso della sfida a cui la relazione chiama.

«Pregate per me», affidarsi. Affidarsi al concreto, questo è il paradosso. Ma è un paradosso vitale, senza il quale “preghiera” è solo ripetizione verbosa di parole senza cuore. Affidarsi in un mondo dominato da rischi implosivi, al rischio esplosivo, positivamente esplosivo: che l’altro – e non solo l’Altro – a un certo punto, davvero, risponda.

Ci si affida a Dio: «¡que Dios me banque!», che Dio mi tenga il banco, mi sorregga, è una delle espressioni più esemplari nel lessico di Francesco. Ma ci si affida anche agli uomini e questo è il rischio più grande.

Quel “pregate per me” – nel suo intreccio inestricabile fra teologia e antropologia – è un affidamento agli uomini, un affidamento alla fede degli uomini che presuppone una radicale, inaudita fede negli uomini.

Ma quali uomini? Chi può pregare per il Papa? Cattolici, cristiani tutti, membri di quelle comunità di destino che costituiscono la zona non franca, perché piena di pericoli, ma in ogni caso comune per le fedi viventi sul pianeta?

Come preghiamo, noi? Preghiamo così, per abitudine, pietosamente ma tranquilli, o ci mettiamo noi proprio con coraggio, davanti al Signore per chiedere la grazia, per chiedere quello per cui preghiamo? Il coraggio nella preghiera: una preghiera che non sia coraggiosa non è una vera preghiera. Il coraggio di avere fiducia che il Signore ci ascolti, il coraggio di bussare alla porta … Il Signore lo dice: "Perché chiunque chiede riceve e chi cerca trova e a chi bussa sarà aperto’". Ma bisogna chiedere, cercare e bussare”.

Papa Francesco (Santa Marta, 13 ottobre 2013)

All’interno di queste comunità di destino, il Papa si rivolge al concreto e il concreto a cui si può rivolgere un “io” è sempre e soltanto un “tu”.

La parola più dura e rischiosa del cristianesimo, diceva il grande teologo protestante Karl Barth, è “esperienza”.

Se Dio è totalmente Altro da quello che siamo noi, la teologia che ne consegue, la teologia del “totalmente Altro”, ha estromesso l’esperienza, la soggettività, dall’area della relazione io-Dio, io-Mondo. Heinrich Ott ricordava in tal senso che

la preghiera non è "soltanto un fenomeno della fede vissuta, ma la fede è preghiera, la preghiera è coestensiva della fede"

È questa una ferita aperta, anche nel mondo protestante. Una ferita su cui cala la riflessione profonda e al contempo concreta, ampia nel suo orizzonte e minuta nella sua concretezza, di Papa Francesco.

Francesco si è immerso integralmente nel concreto di questa coestensione attiva, non solo "pregando", ma anche quando risponde a una lettera, telefona, va a trovare qualcuno. Capisce che il qui e l’ora della relazione è il luogo cruciale di un'etica umana e, inevitabilemente, cristiana.

L’esperienza è l’unico, vero luogo della spiritualità. L'unico, duro campo di rischio. Questo ci insegna Francesco.


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