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Anziani: la coperta del welfare è già troppo corta

Il V Rapporto sull'assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia registra per la prima volta un calo fra gli utenti di tutti i servizi pubblici rivolti alla non autosufficienza. Combinato con la crescita demografica del numero degli anziani, è un segnale preoccupante. Un'intervista con Cristiano Gori

di Sara De Carli

Anziani non autosufficienti, un futuro da ricostruire. È questo il sottotitolo scelto per il 5° Rapporto sull'assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia, pubblicato poche settimane fa (è scaricabile gratuitamente qui), curato dal Network Non Autosufficienza. Per la prima volta nella storia la copertura dei servizi e degli interventi per anziani non autosufficienti in Italia presenta tutti segni meno. Significa che in tutti i servizi sono diminuiti gli anziani presi in carico, nonostante cresca il numero di anziani non autosufficienti. Gli utenti ospiti di strutture residenziali fra il 2010 e il 2012 sono passati dal 2,4% della popolazione over65 al 2,1%; quelli che hanno l’indennità di accompagnamento sono scesi dal 12,6% del 2011 al 12,0 del 2013.

I dati di contesto

In Italia infatti ben 2,5 milioni di anziani hanno limitazioni funzionali di qualche tipo (mobilità, autonomia, comunicazione, ecc.) e sono parzialmente o totalmente non autosufficienti. Oggi oltre il 21% della popolazione italiana è over 65 anni: ben 13,2 milioni di persone, di cui la metà (6,6 milioni) con più di 75 anni (Istat 2015). E l’ invecchiamento della società italiana non è ancora concluso: poco dopo il 2050 avremo un 20-26% della popolazione over75. Si tratta di persone con bisogni sanitari e socio-assistenziali che necessitano assistenza di tipo continuativa (Long-term Care, LTC). Il sistema si è retto finora per buona parte sul contributo delle famiglie dei non autosufficienti: secondo l’Istat (La conciliazione tra lavoro e famiglia, 2011) in Italia ci sono circa 3,3 milioni di caregiver familiari che si prendono cura di adulti (inclusi anziani, malati e disabili): l’8,6% della popolazione italiana adulta risulta dunque impegnata in attività assistenziali gratuite, con percentuali che nel Centro Italia si avvicinano al 10% (a livello europeo, si stima che l’assistenza familiare fornita dai caregiver rappresenti l’80% dell’intero ammontare della LTC per anziani). Le famiglie hanno sostenuto l’assistenza con l’acquisto di beni e servizi sanitari e socio-sanitari (inclusi l’assunzione di assistenti familiari e il pagamento delle rette di strutture residenziali): tuttavia, scrive il rapporto, la disponibilità di caregiver familiari non riuscirà a sopperire alle carenze strutturali dei servizi formali di assistenza, sia per l’aumento previsto della popolazione ultrasessantacinquenne bisognosa di cura, sia per la progressiva diminuzione del numero di caregiver familiari. Per di più l’Italia, tra i grandi Paesi europei, è l’unico a non aver riorganizzato in maniera organica e con una “vision” unica e condivisa il suo sistema di continuità assistenziale negli ultimi trent’anni: l’estensione dell’indennità di accompagnamento agli ultrasessantacinquenni risale al 1988.

Cristiano Gori, docente di politica sociale all’Università Cattolica, che ha curato il rapporto, ci spiega perché tutti quei “meno” sono un campanello d’allarme.

Professore, come leggere questa tabella?

Si tratta dell’andamento della copertura dei servizi e degli interventi per anziani non autosufficienti in Italia, utenza è indicata come percentuale della popolazione con più di 65 anni. I dati più recenti – ci riferiamo all’ultimo dato disponibile, quasi sempre quello del 2013) – sugli utenti dei servizi ad almeno parziale finanziamento pubblico indicano la riduzione dell’utenza. Tutti i servizi, fatta eccezione per l’assitenza domiciliare integrate. Anche nel caso dell’ADI tuttavia la crescita è dovuta al Sud e ai Fondi europei, quindi per politiche non strutturali ma straordinarie e a termine: nel Centro Nord anche l’ADI è in calo.

È la prima volta che accade?

È la prima volta. Nel decennio scorso abbiamo visto una fase espansiva importante e la convinzione diffusa era che essendo gli over65 una popolazione in crescita ci sarebbe stato un aumento di attenzione pubblica. La riduzione dell’utenza di ogni servizio ha una storia a sé – ad esempio le difficoltà dei Comuni a ridefinire il ruolo dell’ADI in un’epoca di badanti o le più recenti manovre di controllo della spesa sull’accompagnamento – ma quello che colpisce è il fatto che sia la prima volta che si verifica questo fenomeno uniforme.

Cosa ci dice?

Innanzitutto dobbiamo ricordare che la crescita che si è vista nello scorso decennio era comunque al di sotto delle medie europee e di ciò di cui c’era bisogno: quindi iniziamo ad andare all’indietro partendo da livelli già non adeguati. In secondo luogo in questi anni abbiamo imparato che le nuove forme di finanziamento privato del welfare hanno una importante funzione integrativa, che però non può essere sostitutive del finanziamento pubblico. Quindi o ci saranno scelte politiche di maggior finanziamento pubblico o il settore andrà verso un declino dal punto di vista della copertura del bisogno, in particolare se consideriamo la demografia. Bisogna essere chiari: oggi ci sono anziani “scoperti”. Domani – senza una scelta pubblica di inversione di tendenza – la copertura sarà sempre più ridotta. Lo ribadisco, una riduzione di tutta l’utenza non si era mai vista.

Quindi o ci saranno scelte politiche di maggior finanziamento pubblico o il settore andrà verso un declino dal punto di vista della copertura del bisogno, in particolare se consideriamo la demografia.

Cristiano Gori

Andando per territori, cosa si può dire?

Le rilevazioni ci mostrano che si conferma “l’equazione della crisi”: welfare uguale prestazioni per casi gravi. C’è una spinta a concentrarsi sui casi gravi, in termini di bisogno assistenziale o di condizioni economiche. E una spinta a concentrarsi su risposte di tipo prestazionale, per cui dovendo rinunciare a qualcosa si rinuncia a tutto ciò che non è l’ora di assistenza diretta: lo sportello informativo, la presa in carico, il case managment… Non accade ovunque, è un fenomeno variabile, però c’è questo tema. Non è che quei servizi scompaiono, ma ci si investe meno, si concentrano gli sforzi sull’area risposte: però sono questi servizi che fanno la differenza anche perché anziani e famiglie come prima cosa chiedono proprio di essere accompagnati, prima della prestazione.

C'è qualche segnali positivo?

Certo, si registrano anche molti segnali di vitalità. Noi chiediamo a testimoni privilegiati quali tipi di progettualità siano in atto e tre anni fa, nel 2012/13, la maggior parte ha risposto che non c’era nessuna spinta progettuale. Oggi invece sottolineano proprio questa progettualità. Questo ci dà un messaggio importante. Da un lato oggi c’è più innovazione, ma è irreale che non ci fosse per nulla tre anni fa. Cosa è cambiato? Nella prima fase di crisi, con il primo calo delle risorse, questo mondo ha vissuto un momento di grande disorientamento. Adesso invece, pur in un contesto complicato, riemerge una attitudine positiva e una spinta a progettare e innovare. Lo si tocca con mano parlando con gli operatori.

Il rapporto parla di innovazione dell’offerta, che cosa avete visto?

Si sta lavorando molto sulla riconfigurazione della rete di offerta, cioè la creazione di nuovi interventi e servizi in tutto quello spazio intermedio tra la domiciliarità e la residenzialità per il non autosufficiente grave: quindi tutte le forme di residenzialità leggera, il ripensamento dei centri diurni. Gli anziani hanno bisogni eterogeneei, dobbiamo essere in grado di articolare una gamma di risposte tra i due poli della domiciliarità e della residenzialità. Si sta tentando di allargare il perimetro degli interventi pubblici, mettendo a sistema anche risorse di fonte plurima. Ad esempio ci sono sperimentazioni che coinvolgono le badanti nella rete dei servizi, si sta ripensando ruolo dell’ente pubblico nel sostenere le badanti, ponendosi il problema di affrontare target diversi, ad esempio la non autosufficienza leggera.

Si parla però anche di innovazione nei servizi.

In molti territori accanto alla spinta a fare innovazione dei servizi, che significa costruire nuove tipologie di offerta, c’è la spinta a portare innovazione nei servizi, che significa interrogarsi su come cambiare le cose che già si fanno, cercando cosa non va nei servizi. Le realtà veramente stimolanti sono quelle che stanno lavorando su tutte e due le questioni.

Foto Getty Images


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